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Esteri
Guyana tra elezioni e petrolio. Con l'interesse delle grandi potenze
Granger

La Guyana, piccolo paese sudamericano ed ex colonia olandese e britannica, è alle prese da ormai diversi mesi con una grave crisi politica. I risultati ufficiali delle elezioni, tenutesi lo scorso 2 marzo, non sono stati ancora annunciati a causa dell’interruzione dello spoglio dei voti nel distretto elettorale più popoloso, la regione di Demerara-Mahaica. Nelle ultime settimane è arrivata appositamente una commissione della Comunità Caraibica per vigilare sul conteggio, visto che nel frattempo entrambi i candidati per la presidenza, David A. Granger e Irfaan Ali, si sono dichiarati vincitori. Il rischio che siano avvenuti brogli durante lo scrutinio, secondo fonti statunitensi, è concreto.

Il presidente uscente Granger, leader del ‘People’s National Congress’ (PNC) e della coalizione ‘Partnership for National Unity’-‘Alliance for Change’ (ANPU-AFC), rappresenta l’etnia africana del paese, mentre lo sfidante Ali, leader del People’s Progressive Party (PPP), è espressione della popolazione di origine indiana. Il piccolo paese caraibico infatti è diviso sostanzialmente tra queste due etnie, quella africana (30%) e quella indiana (43%), e nel corso degli anni le relazioni tra le due parti sono sfociate non di rado in tensioni sociali. Questo voto, dal risultato ancora incerto, non aiuta a placarle, anche perché la posta in gioco è aumentata esponenzialmente in questi ultimi 4 anni.

Nel 2016 è stato scoperto un giacimento di petrolio nelle acque guyanesi, denominato Stabroek Block, di cui solo negli ultimi tempi si è capita la reale grandezza. Le recenti stime parlano di un valore del giacimento di circa 8 miliardi di barili di petrolio, che potrebbero far diventare la Guyana una sorta di Qatar sudamericano. Le previsioni della Banca Mondiale rilevano che nel 2019 il PIL guyanese ha avuto una crescita del 4.5%, alla fine del 2020 sarà dell’86.7%, nel 2021 dell’10.5% e nel 2022 del 14.6%. L’estrazione del petrolio è proseguita nonostante la crisi del Covid-19 e l’obiettivo dichiarato, per il medio periodo, è di avere una produzione di circa 750.000 barili al giorno entro il 2025. L’enorme giacimento e la crescita del piccolo paese hanno attirato così le mire delle grandi potenze.

Il consorzio che si occupa dell’estrazione dell’oro nero è guidato dalla statunitense ExxonMobil, ma al suo interno, oltre a compagnie europee e statunitensi, è presente con il 25% una delle più grandi compagnie statali cinesi, la China National Offshore Oil Corporation (CNOOC). Gli interessi degli Stati Uniti sulla Guyana sono motivati, oltre che dai risvolti economici, sia dall’appartenenza geografica a quel subcontinente definito “il proprio giardino di casa” da Washington, sia dal confine con il paese latinoamericano attualmente più instabile, ovvero il Venezuela, in cui è in gioco una contesa ormai globale. Non sono da sottovalutare, poi, le dispute territoriali che Georgetown (capitale guyanese) ha ancora in corso proprio con il Venezuela e il Suriname. Diversi territori forestali e alcune porzioni di aree marittime, ricche di materie prime, sono al centro di contese portate avanti dai tempi coloniali, di cui gli Stati Uniti sono il garante. La Guyana inoltre, con la sua costa atlantica, è un hub di riferimento regionale per il narcotraffico sudamericano, che trova negli Stati Uniti il principale cliente. Anche per questo Washington ha interesse nel preservare il sistema democratico guyanese.

Lo stretto legame tra la Guyana e la Cina invece è più insospettabile, nonostante siano ormai decenni che Pechino investe nel piccolo paese sudamericano. Nel 2007, per esempio, la società cinese Bosai Minerals ha investito 60 milioni in miniere guyanesi di bauxite (minerale fondamentale per la produzione di alluminio), mentre nel 2016 la Cina è diventata la destinataria maggiore delle esportazioni guyanesi di legname. I rapporti tra Pechino e Georgetown sono stati rafforzati dalla penetrazione cinese nei paesi caraibici, previsti nel più ampio e famoso progetto strategico della ‘Belt and Road Initiative’.

Le grandi potenze, e in alcuni casi gli attori regionali, sono già in campo in Guyana, pronte a contendersi le numerose risorse naturali ed energetiche di cui il paese dispone. Per l’ex colonia britannica passare, nel giro di pochissimi anni, dall’essere uno degli Stati meno conosciuti del Sud America ad essere tra i principali produttori mondiali di petrolio può avere anche impatti negativi. Sono molti a pensare infatti che far diventare l’economia della Guyana dipendente dalla produzione di petrolio possa essere controproducente, nonostante innegabili vantaggi che porterà nel prossimo futuro. Non è un caso che osservatori internazionali ed esponenti della comunità guyanese stiano richiamando alle possibili conseguenze sociali di questo boom economico. La loro speranza è che lo sfruttamento del giacimento di Stabroek prosegua di pari passo con un profondo rinnovamento del paese, con riforme che coinvolgano tutti i settori principali (sanitario, scolastico, produttivo) e che puntino ad uno sviluppo sostenibile.

Per questo motivo, ritornando alle elezioni sospese, il prossimo presidente avrà sia onori che oneri da gestire. Il petrolio potrà far ricca la Guyana e la sua popolazione, ma la povertà di base, la corruzione dilagante, le tensioni etniche, l’influenza delle grandi potenze e una probabile impasse politica, sono tutti ingredienti esplosivi che potrebbero risultare fatali per la transizione e il benessere del piccolo paese sudamericano.

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