La soluzione per la Siria
Molti anni fa, Edward Luttkwak, a proposito dei conflitti nella ex Jugoslavia, formulò una teoria terribile ma non necessariamente "falsa". In una guerra civile su base etnica o religiosa la pace si può avere solo se una delle due fazioni abbandona il territorio o è sterminata. Punto di vista morale a parte, la tesi non fa una grinza: se uno dei contendenti non c'è più, regnerà certamente la pace, se si impone una tregua dall'esterno, si congela per qualche tempo lo scontro ma una volta che i pacieri saranno andati via, i contendenti saranno gli stessi di prima, i loro motivi di dissidio saranno gli stessi di prima e il conflitto prima o poi riprenderà. È inutile cercare di porre fine al massacro (come si cercava di fare in Jugoslavia) perché proprio il massacro è la via migliore per arrivare alla pace. La tesi è cinica e spietata ma nell'ambito della Realpolitik l'unico metro è la verità. È questa che bisogna cercare.
Naturalmente se le fazioni, per quanto profondamente divise, avessero il buon senso di capire che la pace conviene a tutte e due, Luttwak avrebbe torto. Ma il buon senso spesso latita. In Irlanda i contrasti fra cattolici e protestanti hanno condotto alla spartizione dell'isola e ciò malgrado i protestanti dell'Ulster hanno avuto per decenni problemi (con morti e feriti) con i residui residenti cattolici. Un secondo esempio è Cipro. La convivenza fra turchi e greci - come dire fra musulmani e cristiani - ha condotto ad una spartizione dell'isola che, per qualche tempo, è stata impermeabile come quella fra Berlino Est e Berlino Ovest. Né diversamente sono andate le cose in India. Dopo gli scontri, al momento dell'indipendenza, i maomettani andarono in centinaia di migliaia a nord-ovest, nel nuovo Stato denominato Pakistan, mentre gli indù che in esso si trovavano andarono a sud-est, in India. La pace si ebbe al prezzo di due bibliche migrazioni. Tutto ciò conferma la teoria di Luttwak. Quando una costosa separazione è possibile, la pace si può ottenere. Se invece essa è impossibile, il problema rischia di essere insolubile.
Questo excursus ci conduce alla Siria. Qui infuria da tempo una sporca guerra civile e molti si chiedono chi ha ragione e chi ha torto. Per i cittadini normali (e per i giornalisti superficiali, cioè la stragrande maggioranza) il problema non si pone neppure: da un lato c'è Hafiz al-Assad, un dittatore senza scrupoli, dunque da abbattere. Dall'altro ci sono gli insorti che, come i sanculotti, non possono che essere ferventi democratici. Quanto questo quadro sia ingenuo e falso non val neppure la pena di dimostrarlo.
Gli Stati invece si chiedono se a loro - non ai siriani, di cui non importa nulla a nessuno - convenga la vittoria degli uni o degli altri. La vittoria dei ribelli servirebbe ai sauditi e in genere agli Stati a maggioranza sunnita, perché il clan al potere è alawita, appartiene cioè a una setta sciita. La caduta di Assad servirebbe agli Stati Uniti, e in genere a tutti coloro che temono le tendenze egemoniche dell'Iran, perché Tehran, attraverso un Iraq in cui la presenza sciita è tutt'altro che trascurabile, con la Siria alawita ha una porta sul Mediterraneo. Una porta che ha anche la Russia, la quale infatti sostiene Assad. Ma le lezioni dell'Iraq e dell'Afghanistan sono troppo recenti - per non parlare delle delusioni della cosiddetta "Primavera Araba" - perché qualcuno pensi di sporcarsi le mani. Si aiuta sottobanco la fazione che si preferisce, ma quanto a lasciarsi coinvolgere nelle beghe del Vicino Oriente non se ne parla. Il compito di sparare e morire è lasciato ai siriani. E poiché il loro contrasto ha radici sia politiche, sia religiose, è ovviamente molto difficile da comporre.
Significativa la posizione di Israele. Raramente un Paese è stato tanto silenzioso e inerte a proposito di un conflitto a un tiro di schioppo. Gerusalemme sa che non si tratta della lotta fra il bene e il male, ma tra due mali. Assad è un autocrate noto ma prudente e col quale si può convivere. Perfino il sostegno militare dei terroristi di Hezbollah cambia poco: infatti essi si muovono su ordine di Tehran. Mentre i ribelli, influenzati da al Qaeda, sono un inquietante interrogativo.
La guerra civile non finisce perché le sue radici sono profonde e militarmente le fazioni sono asimmetriche. Il governo ha astutamente e profondamente infiltrato l'esercito, certo imbattibile con armi leggere. I ribelli hanno dalla loro la maggior parte della popolazione (sunnita) e dunque nessuna delle due parti è abbastanza forte per massacrare l'altra al punto da toglierle ogni velleità di resistenza. Solo il tempo taglierà il nodo.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it