Esteri
Putin, freddo e stratega, ha sconfitto il solito Trump (tra show e ambiguità). L'analisi psicologica del vertice in Alaska
Il tono del tycoon era più da venditore che da statista

La psicologia del potere, ancora una volta, ha parlato più forte delle parole
Il vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, tenutosi il 15 agosto 2025 presso la base militare Elmendorf-Richardson di Anchorage, ha offerto molto più di dichiarazioni ufficiali e trattative geopolitiche. Per chi sa leggere tra le righe – o meglio, tra i gesti – la vera partita si è giocata sul terreno della comunicazione non verbale. Cinesica, prossemica e paralinguistica hanno raccontato una storia di potere, controllo e sottile competizione.
Cominciamo dalla cinesica, ovvero dal linguaggio del corpo. Trump si è mostrato sorprendentemente rilassato all’arrivo di Putin. Spalle dritte, sorriso naturale, mani visibili: segnali di sicurezza e apertura. Tuttavia, il suo gesto di applaudire leggermente all’arrivo di Putin è stato letto come un segno di rispetto deferente, quasi di sottomissione.
Il momento della stretta di mano è stato una danza di micro-dominanze. Trump ha inizialmente offerto la mano con il palmo rivolto verso l’alto – posizione più sottomessa rispetto al suo solito stile dominante – ma ha subito compensato tirando Putin verso di sé, gesto che indica controllo. Ha poi aggiunto la mano sinistra sul braccio di Putin, una “stretta doppia” che segnala superiorità. Putin ha risposto con fermezza, mantenendo il contatto visivo e il sorriso, mostrando resistenza e parità di ruolo e di importanza.
Ora passiamo alla prossemica, ossia al significato della distanza fisica e del movimento nello spazio. Durante la passeggiata sul tappeto rosso, Putin ha camminato con passo sciolto, braccia che oscillavano liberamente, segno di fiducia e padronanza dello spazio. Trump, al contrario, ha tenuto le braccia rigide lungo i fianchi, suggerendo tensione o contenimento.
La scelta di condividere la limousine presidenziale “The Beast” per il tragitto verso il luogo del summit ha creato un’immagine di intimità diplomatica, ma anche di potenziale squilibrio: Putin, ospite su suolo americano, ha ricevuto un trattamento da pari, se non da favorito.
Ora consideriamo la paralinguistica, cioè l’uso della voce e dell’espressione vocale (con i relativi significati). Nelle dichiarazioni successive, Trump ha usato un tono ottimista ma vago: “Molti punti sono stati concordati, ma ce ne sono alcuni importanti ancora da risolvere”. Nessuna conferenza stampa congiunta, nessun accordo formale. Il tono era più da venditore che da statista. Putin, invece, ha mantenuto il suo stile retorico rigido, parlando di “minacce fondamentali alla sicurezza” e della necessità di “eliminare le cause primarie del conflitto” – eufemismi che mascherano la sua posizione intransigente sull’Ucraina.
Dunque, chi ha vinto? Se il summit si fosse giocato solo sul piano verbale, il risultato sarebbe stato un pareggio diplomatico. Ma sul piano non verbale, Putin ha ottenuto tre vittorie strategiche.
Ha ricevuto un’accoglienza da leader amico, non da nemico.
Ha spinto Trump ad abbandonare i colloqui di cessate il fuoco per passare direttamente a negoziati di pace.
Ha mantenuto la sua posizione senza concessioni, mentre Trump ha cercato di salvare la faccia con dichiarazioni concilianti.
Il summit di Anchorage ha avuto ripercussioni ben oltre i confini degli Stati Uniti e della Russia. Sebbene non siano stati annunciati accordi formali, il solo fatto che Putin sia stato ricevuto con tutti gli onori su suolo americano ha generato reazioni contrastanti in Europa e tra gli alleati NATO.
L’Europa è in allerta: mentre Trump e Putin si stringevano la mano in Alaska, i leader europei si riunivano in videoconferenza per monitorare l’incontro. Il timore principale? Che Trump potesse accettare uno “scambio di territori” tra Russia e Ucraina, percepito come una concessione unilaterale a Mosca. L’assenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky dal vertice ha sollevato dubbi sulla legittimità di eventuali negoziati. Senza la partecipazione diretta di Kiev, ogni proposta di pace rischia di apparire imposta dall’alto.
Per Putin, il summit ha rappresentato una vittoria simbolica. Dopo anni di isolamento e un mandato d’arresto internazionale, essere accolto come un sovrano negli Stati Uniti ha dato l’impressione di una forte riabilitazione diplomatica. Una vera e propria “resurrezione”.
Per Trump, il vertice di Anchorage è stato un palcoscenico per riaffermare il suo stile di leadership: show, simboli forti e dichiarazioni ambigue. Ma l’assenza di risultati concreti ha lasciato molti osservatori scettici sulla reale efficacia del vertice. Che in realtà non ha prodotto un accordo, ma ha rivelato molto sul rapporto di forza tra i due leader. Trump ha cercato di bilanciare rispetto e controllo, ma Putin ha giocato la partita con freddezza e strategia, uscendo dall’incontro con più vantaggi simbolici e politici. La psicologia del potere, ancora una volta, ha parlato più forte delle parole.
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