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Green influencer, parla Camilla Mendini: "Sostenibilità? È responsabilità"
Camilla Mendini 

Camilla Mendini è un’attivista ambientale e fashion designer, che ha fatto della sostenibilità il centro della sua vita, sia professionale che personale. Di origini veronese, ma americana d’adozione, premiata top green influencer nel 2019 da Green Style, è uno dei punti di riferimenti nazionali sul web per quanto riguarda la second hand economy (la moda di seconda mano) e il lifestyle sostenibile.

Il viaggio di Camilla prende forma nel lontano 2014 sulla piattaforma video Youtube, per poi crescere attraverso Instagram e un blog personale. Dai video articolati alle stories, dalle denunce legate al mondo del fast fashion alla realizzazione di Amorilla, dagli articoli sul blog a un canale di e-commerce artigianale, il lavoro di Camilla mette insieme editoria e comunicazione, creatività e sostenibilità, che nella parola “arte” trovano la giusta sintesi. A oggi, con una community che conta oltre i 50mila utenti, la missione “verde” della top green influencer è trasmettere con ancora più passione e costanza la bellezza, unita a consapevolezza, dell’agire quotidiano secondo priorità sostenibili. 

Innanzitutto, green influencer, ti ritrovi in questa denominazione e in questo ruolo? Che cosa significa per te? 

Sicuramente ne sono lusingata, perché comunque non ci sono tantissime premiazioni che riguardano i social media e le persone che si impegnano nel campo green attraverso queste piattaforme. Personalmente, ho ricevuto la menzione speciale come top green influencer nel 2019 grazie a un progetto Instagram, che curavo dal 2018, nel quale ogni giorno mostravo come il vestire sostenibile fosse un atto fattibile. Il mio outfit of the day veniva creato attraverso la scelta di accessori sostenibili o brand artigianali. Alla fine, si trattava di un progetto personale che mi ha aiutato a farmi conoscere e l’aver ricevuto un premio mi ha sicuramente onorata. Poi esistono le varie classifiche influencer che vengono stilate dai grandi giornali, e anche quelle sono dei feedback che fanno sempre piacere. Il “green” sui social media è ancora una categoria di nicchia, e vedere che l’informazione dà spazio a questi temi è un grande riconoscimento a tutti gli sforzi. 

Forse il momento spartiacque è stato il marzo 2019 quando in tutta Italia e Europa, sulla scia delle parole dell’attivista svedese Greta Thumberg, un’intera generazione di giovani si è mobilitata per chiedere più attenzione verso queste tematiche, che spaziano dal cambiamento climatico alla sostenibilità quotidiana, o no? 

Sì, assolutamente, è stato un momento di grande cambiamento. Forse qualcosa si sta muovendo. 

Sostenibilità è la parola chiave del tuo percorso di vita e della tua formazione. Quando però hai sentito l’esigenza di fare della divulgazione green la tua professione, nonché missione? 

Quando ho iniziato a interessarmi di sostenibilità sono partita dal mondo della moda. Ho iniziato a studiare questo ambito, immergendomi completamente e trovando nel giro di poco terreno fertile. Forse anche i miei studi di design (della comunicazione) e non della moda, hanno influito positivamente. In ogni caso, la parte creativa è sempre stata pane per i miei denti. La moda mi piaceva e mi piace tutt’ora. Nella mia famiglia mamma ha sempre cucito e nonna anche. Mi hanno insegnato a controllare i tessuti, guardare gli orli, a capire la qualità dietro un capo. Probabilmente ero sensibile a questo argomento, senza neanche saperlo. Col tempo studiando e interessandomi, sono passata a essere da consumatrice consapevole a designer consapevole. 

Il momento esatto di svolta è stato quando dall’Italia mi sono trasferita negli Stati Uniti con tutta la mia famiglia. Mi trovavo a casa con una bimba e un bimbo piccolo e ho capito che avevo bisogno di reinventarmi e così è stato. Ho lasciato un lavoro da graphic designer per arrivare a scoprire quanto sia bello unire creatività, design e sostenibilità. Mi piace tantissimo quello che faccio, perché so che faccio del bene. Quando creo, creo qualcosa nel rispetto della natura e dei lavoratori. 

Una scelta più di petto o ragionata? 

Una scelta direi quasi casuale, ma come se fosse già stata scritta. La consapevolezza invece è arrivata prima nella veste di consumatrice, poi di designer. Non è che sia mai stata una shopper compulsiva, però ho iniziato a comprare in un’altra ottica. Ora mi pongo delle domande e capisco che cosa c’è dietro. E anche come designer faccio lo stesso: creo qualcosa che sia rispettoso. 

Così, in mezzo a tanta creatività, trovano spazio due progetti importanti: Amorilla e Carotilla.com. Di che cosa si tratta nello specifico? Tu spesso le hai definite “realtà slow”, che cosa significa? 

Amorilla è proprio un marchio di slow fashion,  una contrapposizione volontaria alla fast fashion. La fast fashion fa uscire tantissime collezioni all’anno, quasi una a settimana, Amorilla invece no. Amorilla quando trova realtà artigianali, persone fidate che lavorano all’insegna dell’ambiente con produzioni eticamente corrette concorda delle nuove collezioni, senza però la fretta di dover uscire. Ora ad esempio Amorilla è ferma, causa Covid. Personalmente preferisco non fare nulla, piuttosto che non avere il controllo, anche fisico, di quello che succede. L’esigenza non è far uscire le collezioni in ogni momento, l’obiettivo è l’opposto della moda tradizionale. 

Amorilla è quindi un marchio che si basa su realtà ricercate, delle piccole “love stories”  tra la moda e la sostenibilità. Carottila. com è invece uno spazio di e-commerce che ho voluto creare per dare voce a tutti quegli artigiani locali che ho incontrato nel mio cammino, da cinque anni a questa parte. Sono persone con cui parlo di sostenibilità, di cui conosco i prodotti, e con le quali collaboro per la creazione di collezioni esclusive. Lo scopo è ampliare la gamma dei prodotti, attuando una rivoluzione al sito. Sono in fase in cui mi dico: ok è ora di fare un passo in più, e mi sto impegnano per riuscirci. 

Attraverso il tuo lavoro hai cercato molto spesso di abbattere quel paradigma distopico che lega la sostenibilità a qualcosa di obsoleto, a volte costoso ed irraggiungibile. Che cosa porta le persone a legarsi a questi luoghi comuni? E che cosa ancora manca, secondo te, nella narrazione odierna in termini di sostenibilità e green? 

In primo luogo, c’è un immaginario collettivo ancora molto difficile da mettere sotto il tappeto, che collega l’interessamento all’ambiente e ai diritti umani a una categoria politica precisa. Mentre è necessario rendere la sostenibilità apolitica, poiché si tratta di una questione di responsabilità sociale. Bisogna prendere coscienza che quando si compra un prodotto c’è una conseguenza, quando se ne compra un altro, un’altra ancora. Se tutti lo sappiamo, possiamo agire in modo differente, il problema è che ancora oggi in molti non lo sanno. 

Dopodiché esiste un retaggio culturale, riconducibile agli anni Sessanta- Settanta, ancora radicato. In quegli anni, prima in America e poi in Italia, le tematiche legate al riciclo sono state portate in auge da una categoria di nicchia di persone, gli hippie. Il problema è che da nicchia si sono trasformati in “stereotipi”. In passato l’essere sostenibili era una sorta di “stile”, una “moda”, ora invece no. Il problema alla base è sempre uno: il greenwashing. Ogni brand dice di essere sostenibile, veicola messaggi positivi, trasmette la sostenibilità come “normalità”, quando in realtà non lo è.  Purtroppo, c’è ancora molto confusione informativa sul tema. 

A questo proposito, i social sono quindi luoghi “costruttivi” per raggiungere quello che è poi uno dei tuoi obiettivi: consapevolizzare le persone su tutti quei temi che legano la sostenibilità alle scelte di vita quotidiana? 

A mio avviso, è importante che persone molto attive sui social, siano in grado di fare chiarezza. Innanzitutto, mettendo in luce che ognuno può creare un percorso personalizzato sostenibile. Ad esempio, a me piace il vintage e il second hand, studio quella strada e la rendo percorribile. Oppure se sono più proiettata verso lo stile moderno, scovo dei brand che privilegiano più uno stile minimal e urban. Spesso vedo in alcuni commenti sul mio account, ma anche su altri, frasi come: “pensavo fosse roba da vecchi o da hippie”. No, non è più così infatti. Sostenibilità non significa necessariamente hippie. L’immaginario va svecchiato, ma ci vuole comunque tempo, affinché tutti si sentano partecipi di un paradigma nuovo. 

Infine, se e quali sono i tuoi progetti futuri? E se ci sono, su quali tematiche e settori ti piacerebbe puntare maggiormente? 

Sento che questa è la mia strada, non mi vedo in nessun’altra e non penso che tornerei mai indietro. Continuerò a fare quello che sto facendo. Il desiderio è di portare, sempre un po’ di più, il mio lavoro di designer nell’ambito della sostenibilità. 

E in più, se posso concludere, tutti ci dovremmo considerare persone in grado di fare qualcosa di buono. La sostenibilità, così come lo è stata per me, può diventare una grande opportunità di lavoro, conoscenza e formazione, per molti altri. Non vediamola come un dovere noioso, bensì una sfida da cogliere. Alla fine il futuro è lì. Abbracciamolo il prima possibile, in modo da farne parte.

 

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