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Borsellino-Avola, polemiche sul libro di Michele Santoro: leggi un estratto
Foto LaPresse

Da quando la televisione ha scelto di fare a meno di me mi sono scoperto assai fragile e, quel che più conta, non ho trovato nessuna ragione valida per ribellarmi e dire che non ero d’accordo. Tutto è avvenuto quasi per inerzia, senza scandali o censure clamorose e senza proteste da parte mia. Così gli editori e i partiti, di destra e di sinistra, hanno avuto buon gioco a comportarsi come se fossi già morto e io ho lasciato che accadesse: ho scelto di assecondarli, segretamente compiacendomi del fatto che mi ritenessero ancora pericoloso. Allo stesso modo, ho rifiutato le decine di inviti che sempre più stancamente mi venivano rivolti per partecipare a trasmissioni.

Rivedermi in un clone mediocre dei miei programmi mi avrebbe reso patetico ai miei stessi occhi, sarebbe stato come rincorrere il fantasma di me stesso. Da ormai due anni mi sembra di correre, come in una scena del cinema muto dove l’inseguimento è la metafora più completa e riuscita della vita: corse mozzafiato, scivolate, capitomboli, cadute, salti, cambi improvvisi di velocità e direzione, tra la paura di essere catturato e quella di non riuscire ad afferrare ciò che stavo rincorrendo. Scappi dalla televisione, e ti ritrovi a Voghera seduto davanti a un uomo da cui non sai cosa aspettarti.

Nel ristorante in cui ci incontriamo mi guardo intorno. Siamo gli unici avventori. L’arredo, il proprietario e il menù parlano lombardo, tranne che per certi paesaggi siciliani appesi alle pareti e per i pupi che penzolano tristemente dai chiodi. Al centro della sala una cassapanca con sopra un carretto di legno colorato (come quelli di cui trabocca l’aeroporto di Palermo, soltanto più grande) e diverse teste di ceramica di Caltagirone: il re, la regina, il moro. Come se qualcuno, all’ultimo momento, avesse improvvisato una scena teatrale per l’occasione.

La prima cosa che noto di Avola è che quando gli parli se ne sta in silenzio, con la testa bassa, per un tempo infinito. Poi, all’improvviso, come una molla che si è attorcigliata su se stessa, scatta e ti lancia addosso i suoi occhi di ghiaccio. “Vuoi sapere io chi sono? E tu lo sai chi sei veramente? Che cazzo vai cercando da uno come me? Se c’è una ragione per quello che ho fatto? Se sono un pentito? No, non sono un pentito. Non ho niente da chiedere a nessuno. Nemmeno a me stesso. Niente di niente. Il perdono degli altri non mi interessa e io di sicuro non riesco a perdonarmi”.

Queste frasi sono io che le immagino. A Maurizio Avola le parole non servono, parla solo quando è costretto, malvolentieri e a fatica, a scatti, con una voce talmente sottile da sembrare irreale. Nel frattempo i ricordi gli corrono nella testa come un film che riavvolge continuamente: avanti, indietro, e a quadrupla velocità, istanti di una vita talmente incredibile da apparire folle e senza un possibile significato perfino a lui che di tempo per pensare ne ha avuto tanto.

Una tortura che non è finita e che non finirà facilmente. Al primo impatto non mi trova particolarmente simpatico. Il suo avvocato, Ugo Colonna, deve avergli parlato di me in maniera lusinghiera per convincerlo a incontrarmi, ma si capisce che non si fida. Non è ostile, ma glaciale e distante. Provo a rivolgergli qualche domanda banale e intanto lo osservo mentre se ne sta rinchiuso nel suo lungo corpo magro, tutto muscoli e nervi ancora minacciosamente efficienti. Reagisce con calma: non si scompone, non si emoziona. Dà l’impressione di raccogliere lentamente i fotogrammi superflui nel tovagliolo per metterli via di nascosto mentre cerca le poche sillabe da pronunciare e, nel frattempo, con la forchetta sceglie meticolosamente pezzettini sempre più piccoli di cibo prima di metterli in bocca.

«Ci diamo del tu? Per me sarebbe meglio». Ha smesso di mangiare e sta aspettando la mia risposta, ma la sua voce flebile continua a trapanarmi le orecchie con quella richiesta inattesa. Mi sento molto a disagio. Improvvisamente tutti quei morti hanno invaso il ristorante e si sono disposti intorno al nostro tavolo aspettando la mia reazione. Lui, imperturbabile, rimane in silenzio. Ogni tanto alza gli occhi e li pianta nei miei, proprio come faceva con le sue vittime. Mi inquieta e non riesco ad andare avanti, a procedere secondo la scaletta prevista. Ho la tentazione di alzarmi e andarmene. Cosa può dirmi di veramente importante? È un volgare assassino, un esecutore di ordini, di quali segreti di Cosa Nostra può essere a conoscenza? E perché continua a guardarmi così?

«Certo. Diamoci pure del tu».

«Vuoi raccontata la mia vita. Perché? Sono stato un killer e un uomo d’onore, ma a chi interessa? Di Cosa Nostra non se ne parla più. La guerra è finita. Tutto a posto, no?». Anche quando ho cominciato a occuparmene io come giornalista non ne parlava nessuno. Ho speso tanti anni a combattere una guerra dal finale incerto. Oggi la mafia non spara più, è vero, ma la pace non è mai iniziata. «Che ti è rimasto, Maurizio, di quegli anni?».

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