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Covid, tecnologia e ricerca scientifica: così è cambiata la geopolitica
Nella competizione per la leadership, questo matrimonio di interesse fra tecnologie informatiche e applicazioni militari, che può legittimamente essere assurto a leitmotiv della strategia di potenza cinese, non è sfuggito ad alcuni “corridori” occidentali: certo gli Americani, ma anche gli Inglesi del post-Brexit. In un rapporto di oltre cento pagine licenziato all’inizio della settimana, l’Amministrazione di Boris Johnson dichiara infatti di voler tutelare il Regno Unito dall’insorgenza di minacce derivanti da “armi chimiche, biologiche o da tecnologie emergenti che possano avere un impatto comparabile”, fra cui gli attacchi informatici su vasta scala. In quest’ottica la strategia del “Global Britain” punta anch’essa a un deciso rafforzamento degli apparati di difesa (ivi compreso l’innalzamento del tetto massimo di testate nucleari, passato da 180 a 260), mediante lo sviluppo di tecnologie che prevengano “la minaccia sistemica” ai valori e alla sicurezza economica del Paese rappresentata dalla Cina.

Va rilevato, inoltre, come già prima dello scoppio della pandemia (pandemia originatasi, è sempre bene ricordarlo, proprio in Cina, tra i silenzi e gli omissis del Partito Comunista al potere) il Celeste Impero risultasse già decisamente involato verso un repentino e cross-settoriale upgrade tecnologico. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale cinese deriva dall’enorme numero di dati processabili, frutto della profilazione e del controllo ossessivo di una popolazione che percentualmente è la più numerosa del pianeta. In questo senso, secondo alcuni recenti rapporti, sono altresì in fase avanzata di studio programmi di riconoscimento facciale in grado di infrangere anche i migliori sistemi e protocolli di sicurezza: con rischi militari, per l’Occidente, certo ipotizzabili ma non quantificabili appieno in termini di potenziali impieghi ostili. Tra l’altro, i dati fisiognomici con cui allenare il cervellone robotico sarebbero stati raccolti prevalentemente nello Xinjiang, la regione dove la minoranza musulmana uigura è sottoposta a torture, lavoro forzato e detenzione in campi di concentramento non meno spaventosi di quelli nazisti.

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