Ci sono poche certezze nella vita. E quando crollano fanno ancora più rumore. Una di queste, appena caduta, è quella di Repubblica online come “faro” dell’informazione in rete, come sito più visitato e più ricercato. Ebbene: nella settimana tra il 9 e il 15 novembre (dati Audiweb) il quotidiano fondato da Scalfari è stato superato da tre testate: Il Messaggero (13,3 milioni di utenti unici), Fanpage (14,1 milioni) e Corriere della Sera (17,3 milioni). Repubblica si è fermata a ridosso della soglia dei 13 milioni, il 30% in meno rispetto allo storico concorrente, il Corriere.
Un brutto colpo che si aggrava se si vanno a vedere gli ultimi numeri disponibili sulle vendite combinate di copie cartacee e online: dei primi dieci in classifica sui dati di ottobre, solo due sono in flessione. Uno è la Gazzetta, l’altro è appunto Repubblica che ha perso 12mila copie complessive.
Il momento è complicato per il quotidiano, che sta vivendo tensioni interiori che rischiano di lacerarlo. Non c’è nessun compiacimento nello scrivere queste cose: la pluralità d’informazione è uno dei capisaldi della nostra democrazia. Dunque, tutti a fare il tifo per il quotidiano detenuto dalla famiglia Elkann. Proprio il nipote di Gianni Agnelli sta cercando di capire che cosa fare con la sua nuova creatura.
Non è un mistero che ci siano stati colloqui con Carlo Bonomi per l’acquisto del Sole 24 Ore, nel tentativo di creare un quotidiano unico, liberal (ma vicino a quelli che un tempo si sarebbero chiamati “padroni”) e con una struttura simile a quella del New York Times. Non a caso, Elkann fece riferimento proprio alla storica testata americana quando rilevò dai De Benedetti Repubblica. Bonomi, allora, non se la sentì di andare avanti con le trattative, così come non fece proseguire la discussione con Cairo. I tempi non erano maturi, ma chissà che qualcosa non possa muoversi già il prossimo anno.
Nel frattempo, Elkann ha cercato di dare un nuovo indirizzo al quotidiano. Ha congedato Verdelli dopo soli 14 mesi di direzione e ha chiamato Maurizio Molinari, già direttore della Stampa e, ancora prima, inviato proprio da New York. Posizioni più moderate, l’addio di alcune firme storiche come Gad Lerner e l’intenzione di discostarsi da quella logica “di sinistra” che aveva animato la fondazione di Eugenio Scalfari.
Nelle scorse settimane, poi, altri avvenimenti di cui Affari ha già dato conto in dettaglio ma che è bene ricordare: il silenzio quasi totale sulla vicenda di Lapo Elkann fermato a Portofino e il “confinamento” dell’addio di Camilleri alla Ferrari nelle pagine sportive. Per dire, i concorrenti hanno scomodato i “pezzi da 90” per raccontare delle dimissioni che non hanno precedenti nella storia manageriale del cavallino. Ricordiamo, oltretutto, che si sta parlando della terza azienda per capitalizzazione in Borsa, non soltanto di un pezzo pregiato della Formula 1.
È stato poi pubblicato un documento “condiviso” da Maurizo Molinari e John Elkann che ha fatto storcere il naso ai cdr delle varie testate del gruppo che hanno risposto compatti contestando proprio il fatto che un piano così importante fosse stato (parole loro) “calato dall’alto” dalla dirigenza e dalla direzione, senza una condivisione necessaria in un momento come questo. Tra i quattro pilastri che vengono citati figura la necessità di “avere equilibrio nel riportare le notizie, distanza critica rispetto ai fatti, evitare ogni forma di militanza”. Tutto l’opposto di quello che diceva Scalfari.
Ancora: i malumori della redazione si sono moltiplicati quando si è iniziato a temere che la “Muraglia cinese” che deve necessariamente dividere chi scrive dal reparto commerciale, sembra aver iniziato a scricchiolare, con qualche ingerenza che, ci raccontano dalla redazione, non è stata apprezzata. Si legge nel documento, infatti, che in redazione “lavorano fianco a fianco giornalisti, tecnici digitali, analisti dei dati, videomaker, fotografi, producer, autori e addetti al marketing”. Con questi ultimi che normalmente dovrebbero essere molto distanti dai giornalisti.
Ma soprattutto Elkann è uomo di numeri e di conti e anche da questo punto di vista ci sono indicatori che preoccupano. In primo luogo, come detto, i dati sull’andamento del mercato digitale, con la perdita di quel “monopolio” che sembrava garantito. Sono stati venduti tre quotidiani locali perché ritenuti non più strategici per il business. Una mossa che può anche essere comprensibile, ma che è stata seguita da quella ben più traumatica di chiudere Micromega dal 1° gennaio. Se si sforbiciano anche i periodici di approfondimento significa snaturare definitivamente la vision che fu di Scalfari, di Caracciolo e della famiglia De Benedetti. Dopo Micromega si parla già del pensionamento di Limes. Sarebbe un vero peccato per tutto il panorama informativo italiano che si ritroverebbe un po’ più povero, un po’ più debole.
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