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Il Corriere della Sera celebra i suoi 140 anni col libro "Il romanzo d'Italia"

Il "Corriere della Sera", il volto oscuro del potere

Per i 140 anni del "Corriere della Sera" è stato pubblicato dall'omonima fondazione il volume collettaneo Il romanzo dell'Italia. Centoquarant'anni di "Corriere della Sera" (Trebaseleghe-Milano 2016, pp. 507) con il contributo delle sue firme più prestigiose e la curatela di Antonio Carioti e Andrea Moroni. La serie di saggi, seguiti da una farraginosa e confusa scelta antologica, copre la storia dei 140 anni di vita del giornale, ma - a differenza di quanto sostiene l'attuale direttore Luciano Fontana nella sua enfatica presentazione Un "giornale-Paese" - non si identifica con quella dell'Italia per il modo subdolo di leggere gli eventi politici del nostro Paese.


Che cosa abbia rappresentato il "Corriere" nella storia d'Italia ed europea non è specificato nei vari contributi volti più ad offrire un'immagine agiografica piuttosto che inquadrare con obiettività le vicende editoriali che hanno scandito le varie fasi della sua pubblicazione. Ne viene fuori un profilo di scarso valore storico, inficiato da una scelta di articoli che non aiuta il lettore ad orientarsi nel marasma dei fatti e dei personaggi che caratterizzano le varie fasi della storia d'Italia. L'assenza di riferimenti alla ricca letteratura sul quotidiano distorce la storia di un giornale che per l'attuale direttore si riassume invece nelle caratteristiche "di indipendenza, serietà, apertura internazionale, pluralismo delle opinioni, qualità dei suoi giornalisti e dei suoi collaboratori" (p. 7).

Come è noto, il primo numero del "Corriere della Sera" uscì il 5-6 dicembre 1876 proprio nell'anno cruciale del cambio di governo dalla Destra storica alla Sinistra di Agostino Depretis: un aspetto che non emerge chiaramente dal saggio di Paolo Mieli, che parla di un quotidiano "blandamente governativo", con una "linea sensibile agli interessi dell'imprenditoria lombarda" (p. 29). Il giudizio di Mieli è preciso solo in parte se non si tiene presente che il giornale assunse fin dalla sua nascita un indirizzo moderato, improntato alla conservazione della "Dinastia e dello Statuto", come si legge nell'editoriale del primo numero.

Il "Corriere della Sera" sorse su iniziativa del napoletano Eugenio Torelli-Viollier (1842 - 1900), un giornalista di fede monarchica, che non eccelleva per limpidezza di carattere e spessore culturale: fu un acceso antimeridionalista, incapace di scegliere l'amministratore del giornale (il secondo fuggì in America con la cassa) e di tenere un rapporto sereno con la moglie: una donna passionale e isterica, forse responsabile del suicidio di una sua nipote per le simpatie del consorte.

Degli ultimi cinque lustri del XIX secolo il volume concede poco spazio alla storia del "Corriere", trascurando avvenimenti coevi come la morte di Vittorio Emanuele II (1878), quella di Giuseppe Garibaldi (1882) oppure la sommossa popolare contro il rincaro del pane, repressa da Bava Beccaris (1898). Ad eccezione di alcuni accenni presenti negli articoli di Ferruccio de Bortoli o di Sergio Romano, quel periodo storico è ridotto ad un'agiografica interpretazione della città di Milano, che per Galli della Loggia "ha un'identità più articolata, più varia, rispetto alle altre città del Nord" (p. 55). A differenza di altre città come Torino o Genova, l'una caratterizzata da un "ferrigno abito burocratico-statale" e l'altra da un "utopico avventurismo" d'indirizzo repubblicano e mazziniano (p. 55), Milano presenta un'identità peculiare grazie "all'iniziativa di un pugno di imprenditori lombardi", alla grandiosa struttura industriale (Breda, Pirelli) e alle "più varie attività manifatturiere" e finanziarie (pp. 54 e 55). Il giudizio sembra tratto dal vocabolario leghista, ma è meglio espresso da Glauco Licata nella sua Storia del Corriere della Sera (Milano 1976, pp. 41-42), da cui il noto politologo trae non pochi spunti, dimenticando gli aspetti negativi presenti nella città ambrosiana che detiene negli anni fondativi del "Corriere" il primato della malavita, dei salari più bassi d'Europa e dei prezzi più alti.

Nel saggio di Ferruccio de Bertoli, il "Corriere" è presentato in modo erroneo come un giornale particolarmente sensibile ai temi della diseguaglianza sociale (p. 43), mentre Sergio Romano analizza in modo frettoloso il suo atteggiamento sulla politica estera. Sul primo aspetto de Bortoli attribuisce addirittura a Torelli Viollier "un grande amore per la sua terra natale" per la particolare attenzione rivolta "all'arretratezza del Sud, all'esplosività politica della questione meridionale", che "si trasformerà poi negli anni albertiniani in una battaglia di civiltà e giustizia" (p. 43). In realtà, Torelli-Viollier considerò il Meridione la palla al piede dell'Italia e professò un "antimeridionalismo alquanto sbrigativo", che - come scrive Glauco Licata - "sorprende in Torelli Viollier, napoletano, eppure incapace di capire i problemi del Meridione per l'intralcio di vari pregiudizi" (p. 34). Strano che un ex direttore del "Corriere" commetta un errore così madornale, imputabile forse all'unica lettura dell'altra Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera (Milano 1978) di Denis Mack Smith.

Il passaggio della direzione a Domenico Oliva accentuò la linea conservatrice del "Corriere", che invocò addirittura la riduzione della libertà di espressione con esplicito riferimento alla stampa democratica. La successiva gestione di Luigi Albertini (direttore dal 13 luglio 1900) è presentata in modo agiografico da Mieli e da Galli della Loggia, che presentano il nuovo direttore o come un innovatore per il capovolgimento della linea di Oliva (p. 30) oppure come un "geniale giornalista-imprenditore" capace "in pochi anni" di pubblicare "un quotidiano con una tiratura abituale di circa cinquecento mila" (p. 53). Secondo studi più attendibili si deve precisare che il "Corriere della Sera" non superava nel 1906 le 150 mila copie per passare solo con l'ascesa al potere del fascismo a quella cifra. L'esaltazione acritica del "Corriere", considerato un "grande quotidiano nazionale", viene desunta anche dalla capacità di spingersi nel profondo Sud e la vigoria di denunciare la manipolazione delle elezioni ad opera dei prefetti giolittiani (p. 57). L'ex direttore del quotidiano milanese dimentica di sottolineare come l'ascesa imprenditoriale di Albertini fu dovuta ad una certa spregiudicatezza e al legame parentale con il drammaturgo di successo Giuseppe Giacosa: sposò nel 1900 la figlia Piera. Il 31 gennaio dello stesso anno Giacosa - dopo la rappresentazione al teatro Manzoni del dramma Come le foglie - venne festeggiato al ristorante Savini da 120 commensali, tra i quali il musicista Giacomo Puccini e gli scrittori Marco Praga e Gerolamo Rovetta.

Il sistema antigiolittiano del "Corriere della Sera", manovrato direttamente da Albertini, fu dettato dall'avversione verso la politica economica, sindacale e militare dello statista di Dronero e dall'"acquiescenza verso i socialisti" (G. Carocci, Giolitti e l'età giolittiana, Torino, p. 123). Il giornale subì l'impronta "dittatoriale" del suo direttore con l'adesione incondizionata all'invasione italiana della Libia e il sostegno al suo ingresso nel Primo conflitto mondiale con la pubblicazione nel 1911 delle Canzoni delle geste d'oltremare e nel 1915 del famoso discorso di Quarto pronunciato da Gabriele d'Annunzio. Esso diede così largo spazio al "superomismo letterario" (p. 260), dimenticando le sofferenze dei contadini-fanti e improntando i suoi articoli a un registro retorico ed eroico lontano dalla "durissima realtà dalla guerra di trincea" (p. 261).

Di fronte alla grave situazione sociale del primo dopoguerra, caratterizzata da continui scioperi e dall'instabilità politica, il "Corriere" si schierò a favore della marea montante dello squadrismo mussoliniano. Albertini invocò infatti lo Stato forte non contro il dilagare della violenza fascista, ma contro le nefaste azioni dei socialisti. Il tema è trascurato nei saggi di Giovanni Belardelli e di Dario Biocca, entrambi fedeli alla vulgata storiografica dominante. Nel frattempo i fratelli Albertini (Luigi e Alberto), ormai controllori e padroni insieme ai fratelli Crespi dell'assetto proprietario del giornale, avevano ricevuto il 3 gennaio le quote di Pirelli, Beltrami e Frua. Tuttavia il problema rimaneva quello di definire una linea precisa nei confronti del fascismo, che - fino al famoso articolo Commiato scritto da Albertini e pubblicato il 28 novembre 1925 sul "Corriere" - rimase oscillante con l'unica certezza di contrastare il successo delle opposizioni.

Del nefasto periodo dominato da Mussolini fino alla Repubblica sociale italiana e alla caduta del fascismo, il volume analizza il passaggio della direzione da Ermanno Amicucci (6 ottobre 1943 - 25 aprile 1945) a quella di Mario Borsa (26 aprile 1945 - 6 agosto 1946), l'uno fedele al regime e l'altro ai restaurati valori di libertà. Durante la direzione Amicucci, il giornale rimase il più "autorevole" organo di stampa della Rsi per la collaborazione di Benito Mussolini, autore di una serie di articoli sulla politica internazionale, poi riuniti nel pamphlet Storia di un anno. La direzione di Mario Borsa (direttore dal 26 aprile 1945) inaugurò una fase nuova per il sostegno alla Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946, nonostante le direttive contrarie dei proprietari Crespi. Gli anni successivi furono improntati alla difesa del Patto atlantico e della politica europea di Alcide De Gasperi su una linea moderata e centrista, di cui il "Corriere" si fece portavoce nella sottomissione alla Confindustria e contrario alla politica d'intervento statale di Amintore Fanfani e dell'Eni di Enrico Mattei: una posizione conservatrice che fu adottata durante la direzione di Mario Missiroli (direttore dal 15 settembre 1952 al 14 ottobre 1961). Ignaro delle profonde trasformazioni in atto nel Paese, il quotidiano milanese subì un declino a cui pose rimedio la direzione di Alfio Russo (rimase in carica al 10 febbraio 1968), nonostante la tenace avversione ai governi di Centro-sinistra.

Gli anni compresi tra il 1969 e il 1994, analizzati nei saggi di Pierluigi Battista e di Angelo Panebianco, sorvolano sull'atteggiamento del "Corriere" riguardo agli eventi principali di quel periodo storico: la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, il rapimento di Aldo Moro del 16 maggio 1978, la carneficina di Bologna del 2 agosto 1980, il referendum sulla scala mobile del 9 giugno 1985, la presidenza laica di Giovanni Spadolini (28 giugno 1981 - 1° dicembre 1982, quella di Bettino Craxi (4 agosto 1983 - 17 aprile 1987) o l'irruzione nel 1994 sulla scena politica di Silvio Berlusconi e il suo lungo dominio governativo.

Eppure quel periodo aprì la stagione del terrorismo e della cosiddetta "strategia della tensione", di cui il "Corriere" avallò la tesi della strage da parte degli anarchici. Esso non pubblicò la notizia sul negoziante di Padova, che identificò le borse utilizzate per l'attentato come prova verso la "pista nera". Nulla è detto sul disastro ferroviario del luglio 1970 nella zona di Gioia Tauro, su cui vengono date dal quotidiano due versioni contrastanti, l'una accidentale e l'altra dolosa. In entrambi i casi (strage di Piazza Fontana e disastro di Gioia Tauro) le cesure del "Corriere" furono il risultato di pressioni governative e non da un intervento della P2, su cui si ha un cenno di Ferruccio de Bortoli con una difesa della direzione di Franco Di Bella (30 ottobre 1977 - 19 giugno 1981), affiliato alla loggia e committente della famosa intervista di Maurizo Costanzo a Licio Gelli. Il silenzio sul rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Piero Ottone (direttore dal 15 marzo 1972), riluttante a pubblicare ilfamoso scritto Io so sui presunti crimini del governo italiano; l'accordo tra la proprietà e la Montedison (vicino alla Dc e quindi al governo); l'acquisto nel 1974 da parte del gruppo Rizzoli; l'influenza della P2 sul giornale sono trascurati nei saggi di Battista, di Panebianco e di Dario Di Vico, che nelle poche pagine dedicate agli anni 1994-2016 tiene scarsamente presente le proposte analitiche del "Corriere".

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