Auto e Motori
Transizione auto: perché l'Europa rischia il collasso industriale
Tra divieti ideologici e crisi di mercato, l'industria auto europea rischia il ko. Altavilla avverte: serve realismo sui tempi o vincerà la Cina.


Il vento sta cambiando nei corridoi dell'automotive continentale.
Quello che fino a ieri sembrava un monolite inscalfibile, ovvero la marcia forzata verso l'elettrico puro, sta mostrando le prime, preoccupanti crepe strutturali. Il dibattito sulla transizione europea ha assunto toni decisamente più cupi e realistici, ben lontani dagli slogan ottimistici degli esordi. A suonare la sveglia è Alfredo Altavilla, Special Advisor di BYD Europe, le cui parole risuonano come un avvertimento che la politica non può più ignorare: siamo alla vigilia di un punto di non ritorno. La scadenza del 2035, fissata come termine ultimo per i motori termici, non è più solo una data sul calendario, ma si sta trasformando in una spada di Damocle che minaccia la competitività industriale, la produzione di batterie e la tenuta stessa del sistema economico europeo di fronte alla nuova geografia tecnologica dominata dalla Cina.
L'errore di fondo, che oggi emerge con chiarezza, è stato credere che bastasse imporre target normativi stringenti per forzare un'evoluzione industriale rapida e indolore. La realtà ci sta presentando un conto diverso: le fabbriche di semiconduttori sono ancora insufficienti, le tanto decantate gigafactories non riescono a colmare il fabbisogno reale e i costi energetici europei restano una zavorra insopportabile rispetto ai competitor globali. Continuare su questa strada, con un differenziale di prezzo ancora troppo netto tra elettrico e termico, rischia di creare distorsioni fatali, spostando gli investimenti fuori dall'Unione Europea e impoverendo le nostre filiere.
La fuga verso Oriente: il caso Volkswagen
Se c'è un'immagine che descrive meglio di mille report la perdita di vantaggio competitivo del Vecchio Continente, è la mossa recente di Volkswagen. Il colosso tedesco ha scelto di sviluppare le sue vetture piccole direttamente in Cina. È un segnale inequivocabile, una fotografia impietosa di un'Europa che, invece di guidare il cambiamento, lo subisce. Mentre noi discutiamo di regolamenti, l'industria cinese corre a una velocità doppia: batterie di nuova generazione, intelligenza artificiale a bordo, piattaforme software proprietarie e una capacità di scalare la produzione che oggi noi possiamo solo invidiare.
Per molti osservatori non si tratta più solo di vendere auto elettriche, ma di aver ceduto il controllo totale della catena del valore. La domanda cruciale che Altavilla pone sul tavolo è tanto semplice quanto inquietante: la transizione è irreversibile, certo, ma chi guiderà la tecnologia dei prossimi dieci anni?. Se il percorso verso il divieto del 2035 restasse invariato, senza correttivi, l'Europa potrebbe arrivare all'appuntamento con un mercato dimezzato, con immatricolazioni ridotte anche del 50% rispetto ai livelli record del 2017 e ricadute devastanti sull'occupazione.
La ricetta per non affondare: gradualità e alleanze
Non si tratta di invocare un anacronistico ritorno al passato o di abbandonare l'elettrico, ma di iniettare una dose massiccia di realismo industriale nella strategia politica. La soluzione proposta passa per la parola "gradualità": bisogna realizzare le infrastrutture di ricarica prima di imporre i divieti, investire su batterie più performanti e puntare seriamente sull'educazione del consumatore. In questo scenario, le soluzioni ibride non vanno demonizzate, ma accolte come una tecnologia ponte essenziale per proteggere le filiere della componentistica e dare al mercato il tempo di adattarsi.
C'è poi un fattore macroeconomico che l'ideologia green ha spesso sottovalutato: le tasche dei cittadini. In Italia e in gran parte d'Europa i salari reali sono in calo, i consumi compressi e l'accesso al credito sempre più difficile. Senza correttivi, la combinazione tra domanda interna debole e costi industriali elevati riduce la capacità del nostro Paese di attrarre investimenti e reggere l'urto della competizione. La via d'uscita potrebbe risiedere in un approccio pragmatico: un'integrazione industriale tra i grandi player cinesi e la manifattura europea, capace di generare migliaia di nuovi posti di lavoro già nel medio periodo. L'Europa deve scegliere se continuare a imporre soglie rigide sperando in un miracolo, o riscrivere le regole del gioco per non finire fuori strada.
