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Politica
Coronavirus, questo strano primo maggio. Il governo esca dal Grande Fratello

Di Mario Benotti

È un 1° Maggio strano quello che stiamo trascorrendo, una stranissima Festa del Lavoro. Il Paese di fatto chiuso da una serie di decreti del Presidente del Consiglio Conte su suggerimento del Comitato tecnico-scientifico, la politica litigiosa e in polemica ininterrotta, esponenti della maggioranza di governo che twittano solidarietà a distanza per chi il lavoro non ce l’ha o lo ha perso in questa emergenza: messaggi che, sia pure involontariamente, hanno il sapore della beffa.  Senza considerare l’attacco senza precedenti del Movimento 5 Stelle alla Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, alla quale si rimprovera, secondo alcuni quotidiani, di «dimenticarsi del Quirinale», solo per aver richiamato tutti al rispetto della Costituzione e dei diritti fondamentali, anche al tempo dell'emergenza. Un Governo che sembra vivere nel “Grande Fratello” e che, lì dentro vivendo, non si rende conto della reale situazione del Paese.

Ho la sensazione che nessuno avverta cosa stia realmente per capitare: senza lavoro, senza lavoro vero, le persone muoiono, non solo metaforicamente: muore il Paese, al quale nessuno sta indicando una strada, prima di tutti il Governo che ne ha la responsabilità. Non è un problema politico, è un problema pratico: i sindacati spiegano a gran voce che occorre un nuovo patto sociale per dare serenità e fiducia ai lavoratori; il Presidente del Consiglio assicura di essere ben consapevole della rabbia dei lavoratori, promette che non resterà inascoltata, e chiede scusa quanti (la maggior parte) non hanno ricevuto i “poderosi” sussidi rimasti sulla carta, e peraltro rivendicati anche oggi.

Nessuno sembra essere consapevole delle dimensioni del problema. Forse se il presidente Conte e i suoi ministri avessero dato ascolto alle parole del Presidente Mattarella, che più volte ha auspicato un dialogo costruttivo e reale con le opposizioni, si sarebbe evitato uno scontro politico e istituzionale senza precedenti fra il Governo centrale e taluni Presidenti di Regione. Il voler tenere tutto chiuso in tutto il Paese, anche là dove il contagio è ridotto, non tiene conto del vero pericolo che incombe, la fine del lavoro. È pur vero che, qualche anno fa, il sociologo Domenico De Masi aveva teorizzato, riprendendo e “concludendo” gli studi della politologa e filosofa tedesca Anna Harendt, che il futuro sarebbe stato dei disoccupati perché la disoccupazione appariva destinata in ogni caso a crescere, a causa della tecnologia e dell'intelligenza artificiale; ma il violentissimo impatto della pandemia sta anticipando tutto, e solo nei suoi aspetti peggiori. Dobbiamo perciò smetterla di nascondere il presente e sottovalutare il futuro, e riflettere su quello che proprio la Harendt si chiedeva alcune decine di anni fa : cosa succede, in una società fondata sul lavoro, se questo viene a mancare?

Il Capo dello Stato, nel suo messaggio di oggi per la Festa del Lavoro, ricorda con forza che non può esserci Repubblica senza lavoro, e che a partire dal lavoro si deve ridisegnare il modo di essere un Pase maturo e forte. Non può esservi e non vi è contrapposizione tra sicurezza, salute e lavoro. Solo Mattarella, oggi - lontano dalle polemiche e dalle dichiarazioni di maniera, che in questo momento le persone non comprendono né sono disposte ad accettare - ha richiamato al loro ruolo «imprenditori piccoli e medi, lavoratori autonomi e grandi imprese: un ruolo centrale, assieme a quello della ricerca, nel processo di riprogettazione delle filiere produttive e distributive». È questa la responsabilità sociale dell’impresa, troppo spesso confinata in un fascicolo aggiuntivo al bilancio civilistico, per aderire senza troppa convinzione agli adempimenti previsti per le società quotate e alle “buone pratiche” consigliate a tutte le altre. Ora la responsabilità sociale diventa un dovere e un urgenza, e lo Stato dover sostenerla nei fatti, non solo a parole.

Ha ragione il Presidente della Repubblica - e oggi lo ricordano anche i Vescovi italiani -: nulla sarà più come prima. Lo dicono in molti, ma lo comprendono in pochi, a cominciare da chi scrive norme incomprensibili e inapplicabili, e ai molti (anche nel settore privato, soprattutto bancario) che sembrano compiaciuti di non applicarle. Dovrebbero cominciare a chiedersi, le banche timorose di veder crescere le “sofferenze” (ma non imbarazzate di ricevere finanziamenti a tassi negativi dalla Bce), quali potranno essere i loro ricavi quando le attività economiche crolleranno del tutto; “ e così il Governo, il quale non si rende conto che, senza ossigeno, la pressione fiscale non produrrà maggiori entrate ma si limiterà a divorare il Pil (e non sarà il rinvio a singhiozzo delle prossime scadenze ad evitare il default).

Le dimensioni di quello che sta succedendo e sta per succedere non sono più misurabili dalle tradizionali statistiche di occupazione e disoccupazione: è ancora la Conferenza episcopale italiana a ricordare che in un mondo complesso come il nostro - dove la crescita gigantesca delle persone “scartate” è dietro l’angolo - il cambiamento non nasce con un atto di imperio. La “fase 2” e le successive debbono avere un solo obiettivo per la politica: quell’obiettivo si chiama lavoro. E poiché il lavoro non si crea per decreto, bisogna che la politica volga lo sguardo lontano, al futuro, uscendo da dibattiti che fin qui hanno avuto solo il sapore della provincialità, quando non della presa in giro: all’interno di un quadro certo, di carattere nazionale ed europeo, occorre contribuire alla costruzione di un modello sociale ed economico dove la persona sia al centro e il lavoro sia degno di una prospettiva di vita.

I dibattiti sterili alimentati da una classe politica senza preparazione e scarsi contenuti, che non sa assumersi le proprie responsabilità - gravi e inevitabili, soprattutto per chi ha l’onere del Governo - alimenteranno una guerra sociale nel Paese e un terribile odio “di classe”, che oggi assume la forma delle disuguaglianze inaccettabili: fra chi deve in ogni modo ripartire, rischiando in prima persona e senza sostegni e protezioni; e chi invece - lavoratori delle Pubbliche amministrazioni e percettori di redditi di cittadinanza - appare troppo garantito agli occhi della società.

Vanno sostenute le famiglie e vanno sostenute le imprese, chiamate, queste ultime, ad un enorme sforzo per garantire la sicurezza delle persone nei luoghi di lavoro. Sforzo doveroso, certo, ma che non dovrebbe scadere nelle esagerazioni ingiustificate e perfino ridicole, per esempio con l'obbligo - imposto dall'ultimo decreto - di prevedere “bagni appositi” per i fornitori, da sanificare subito dopo l’uso!

Vanno sostenuti gli imprenditori che debbono mantenere e creare nuovo lavoro e nuovi lavori. Se non lo farà lo Stato, semplificando la sua burocrazia e azzerando le pretese assurde, lo faranno gli usurai e la criminalità organizzata. Non resti inascoltato, su questo, il richiamo dei magistrati che più si misurano con il fenomeno; e anche gli imprenditori non dimentichino che le scorciatoie illegali non sono disinteressate e presto presentano il conto.

Esca il governo, per cortesia, dal “Grande Fratello”; ascolti i medici, ma anche le persone e i loro bisogni; non dia ascolto ai “liberisti da divano” (così efficacemente definiti da chi è impegnato giorno e notte nell’emergenza) che straparlano sulle spalle del futuro delle persone e della loro sicurezza. Studi per cortesia, il governo, il modo per indicare una strada per il lavoro: tracci linee di politica industriale, anche minime, in un contesto di sussidiarietà, occupandosi nel contempo della sicurezza nazionale. Ne abbiamo bisogno, ne hanno bisogno le persone, ne hanno bisogno gli uomini e le donne di questo Paese, i destinatari dell'azione politica. Il futuro, oggi, sembra più lontano e faticoso da raggiungere di quanto apparisse due mesi fa. Possiamo capovolgere la prospettiva: facciamo come quei paesi in via di sviluppo, privi di telefoni e rete telefonica quando vent'anni fa i telefonini irruppero nelle nostre vite, oggi ben collegati attraverso le reti di nuova generazione. Avevamo abbandonato la politica industriale, trascurato le manutenzioni, scherzato con la logistica, fatto finta di rilanciare le compagnìe di bandiera mentre finanziavamo con soldi veri gli atterraggi delle compagnìe low cost, trasformato i cantieri delle infrastrutture in “abbeveratoi” senza termine a beneficio di pochi. Oggi che la politica industriale deve essere leggera e sostenibile, i nuovi materiali consentono manutenzioni prima impensabili, la logistica andrà ripensata su tracciati meno esotici delle vie della seta, le compagnie tradizionali e low cost sono tutte azzerate, le procedure nei cantieri possono essere ridisegnate sul “modello Genova”, forse un nuovo miracolo economico potrebbe non essere impossibile. A condizione che al governo ci siano statisti, in Parlamento rappresentanti del popolo che conoscano il popolo, e che ai pubblici amministratori qualcuno ricordi a cosa servano i servizi pubblici e quanto siano inutili se fanno solo perdere tempo e denaro ai cittadini.

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