Le parole odierne di Mario Draghi nei confronti delle Regioni sono dure, ma non sproporzionate rispetto alla realtà. Non è certo il caso di generalizzare, ma in alcune di esse la situazione è veramente inaccettabile. E certamente sarebbe il caso che lo Stato intervenisse sui casi più eclatanti, perché ci sono in ballo vite umane.
Il fatto che la situazione non sia uguale in tutte le Regioni non è un’attenuante: è esso stesso il problema.
Nella sua drammaticità, la pandemia di Covid-19 ha portato alla luce l’assoluta inadeguatezza di un sistema sanitario spezzettato tra venti amministrazioni regionali, ognuna delle quali si muove per conto proprio, determinando inaccettabili squilibri tra cittadini di serie A e serie B.
Oltretutto, la natura stessa del Coronavirus ci ha fatto dolorosamente capire come sia impensabile frammentare un territorio relativamente piccolo come quello italiano: la risposta adeguata alla minaccia pandemica dovrebbe infatti essere non solo su scala nazionale, bensì europea.
Se anche riuscissimo ad uscire da questo incubo in tempi accettabili, il problema non sarebbe risolto. La scienza ci dice che nel prossimo futuro saranno ancora più probabili ulteriori pandemie, ma già la questione del climate change impone una strategia transnazionale. E siamo già in terribile ritardo.
Per questo motivo è davvero auspicabile che alle parole di oggi seguano dei fatti: bisogna necessariamente calendarizzare una discussione sul ritorno allo Stato delle competenze sanitarie, devolute alle Regioni con la riforma del Titolo V° della Costituzione. Vent’anni dopo, oltre ai gravissimi danni per le famiglie le imprese, il Covid-19 ci ha messo sulle spalle la pressane urgenza di porre rimedio a una scelta che si è dimostrata iniqua, inefficiente e anche antistorica.
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