Governo: spinto da Salvini, va. Cosa resta del Pd e della sinistra? - Affaritaliani.it

Politica

Governo: spinto da Salvini, va. Cosa resta del Pd e della sinistra?

Massimo Falcioni

L’ex ministro dell’Interno Minniti, testa lucida del Pd bocciato il 4 marzo anche dagli elettori nel collegio “blindato” di Pesaro, dopo i danni fatti dal governo di cui era autorevole membro, non ha neppure il buon gusto di tacere e sul vertice Ue per l’immigrazione, spara: “L’Italia è tornata a casa suonata”. Quell’Italia che oggi non può certo cantar vittoria ma che almeno prova ad uscire dal ruolo di zerbino e tenta di rilanciare un confronto a muso duro sul trattato di Dublino, una gruviera di cui sono sempre più evidenti i limiti, specie sulla “condivisione di sovranità”, assolutamente campata in aria. “Chi arriva in Italia arriva in Europa” non è solo uno slogan riuscito sul piano della comunicazione ma è la base di un nuovo concetto politico per riprendere il filo della intera ingarbugliata vicenda portata al punto di rottura proprio per gli errori e l’inconsistenza dei governi precedenti. Tenuto col cerotto, con il passo dettato da un fin troppo arrembante Salvini col vento in poppa di un consenso crescente, il governo c’è, tutto preso dalla “pratica” immigrati-sicurezza e dalla sberla ai deputati sui “vitalizi”, mentre altri nodi, specie nell’economia, incombono. Non c’è invece, l’opposizione. Perso il governo del Paese, persi i principali comuni e le storiche roccaforti “rosse”, il gruppo dirigente piddino, non ha avuto neppure la volontà di riflettere sulle cause delle ripetute debacle. Sabato 7 luglio a Roma, è annunciata l’assemblea nazionale del Pd, prigioniero dei soliti riti. Un partito di cui restano - oltre le divisioni e i rancori interni - solo macerie, spolpato sul piano elettorale ed organizzativo, isolato politicamente e nel rapporto con il Paese reale, privo di ideali, progetto politico, leadership. Gli italiani hanno visto e vedono nel Pd e nella sinistra non più lo strumento di cambiamento ma l’ostacolo per il rinnovamento. Di fronte a una tale catastrofe il suo gruppo dirigente (a cominciare dal reggente Martina per finire con il responsabile nazionale Enti locali il renzianissimo presenzialista Tv sindaco pesarese Matteo Ricci) non ha avuto neppure un sussulto di dignità, rassegnando le dimissioni. Non è solo questione di etica o di morale, ma di sostanza politica, un passo dovuto di presa d’atto della sconfitta in funzione di “aria nuova” e di “esempio” perché le dimissioni di Martina&C stanerebbero i clan (satrapi, cacicchi, capi bastone ecc.) azzerando la situazione, ridando la parola alla base delusa e in fuga e avviando una fase congressuale democratica non inficiata dal mercato delle tessere né dalle primarie-bluff. Nessuno cede il proprio angolo di sovranità. Manca l’umiltà di chi riconosce la propria sconfitta e accetta la vittoria altrui grazie al responso delle urne. Nel Pd (e nei rimasugli della sinistra) non c’è il riconoscimento e il rispetto dovuto ai vincitori. Il Pd insiste nell’ergersi a unico depositario della “verità”, brandendo la clava di una presunta superiorità morale e politica, quale unico paladino a difesa della democrazia e delle Istituzioni, irridendo gli avversari premiati dagli elettori,bollando chi oggi governa l’Italia quali “populisti”, “razzisti”, “fascisti”. Di fatto un Pd e una sinistra miopi, settari e prepotenti, fuori dalla realtà, senza più credibilità. Quindi rifiutati e bocciati dagli italiani. Cancellato l’orizzonte del socialismo, impigliati nella palude della difesa dello status quo, perso il potere, cosa resta al Pd e alla sinistra?