Il welfare a rischio tagli
In questi giorni assistiamo alla cronaca di una morte annunciata. Non posso che definire in questo modo, con una citazione d'autore, le difficoltà dei Sindaci che protestano con veemenza per i sempre più probabili tagli ai trasferimenti agli enti locali ipotizzati dal Governo. A causa dello stallo fortissimo nel quale giace la vita economica e produttiva del Paese, non sarà per nulla semplice alimentare 800 miliardi di spesa pubblica in un futuro anche prossimo. Con amarezza e indignazione rischiamo di doverci rassegnare a vedere tagliati servizi essenziali per la collettività, dall'assistenza domiciliare ai dolorosi capitoli riguardanti il welfare. Così come accade ciclicamente, ancora una volta potremmo attribuire la colpa alla "Roma ladrona" o di nuovo alla "Germania sanguinaria", ma sarebbe più onesto esercitare la coscienza ad un sereno mea culpa.
È impensabile, infatti, continuare a difendere strutture ed enti pubblici che hanno fatto della spesa clientelare la loro ragion d'essere: se per anni hanno nascosto l'insensatezza del loro ruolo dietro alla burocrazia e alle leggi pleonastiche, ora lo Stato ha somministrato loro quella stessa medicina che troppo a lungo hanno imposto ai cittadini. Altrettanto poco serene sono le amministrazioni provinciali e, allo stesso modo, la stessa inquietudine toccherà alle amministrazioni regionali. Non bastano più le lacrime di coccodrillo, sono necessari gesti di responsabilità nell'orientare i tagli verso tutte quelle spese improduttive inutili per il cittadino, prima che la scure si abbatta nuovamente sui servizi. Se si attesta che circa il 60/70% della spesa è destinata al personale e che tra questo una buona parte alimenta una dirigenza che non decide, risulta evidente che la scelta si divide tra tutelate questi ultimi o lavorare per un vero welfare sociale, volto al sostegno delle categorie più deboli. Sindaci, voi da che parte state?
Con leggi, consulte e tribunali che difendono regole assurde di diritto del lavoro, buonuscite, maxi pensioni, diritti e non si occupano invece dei più poveri e del futuro del Paese, non sarà molto corretto, ma viene da chiedere: la legge è davvero uguale per tutti? Dal canto suo lo Stato centrale pensa, per far quadrare i conti, a come vendere quote delle nostre ultime aziende nazionali - tra i pochi gioielli di famiglia rimasti - non tanto per la qualità della loro organizzazione, che sicuramente in Italia non eccelle, ma soprattutto per la capacità di imporre sul territorio nazionale prezzi ben al di sopra della media europea. La domanda è: vogliamo continuare a vendere quello che ha valore per mantenere ciò che non ne ha? Questo è il futuro radioso che lasciamo al Paese.
Nicolò Boggian