Nuovo governo, c'è ancora da aspettare: va risolta la "grana" Lega
Intanto Renzi e Berlusconi potrebbero lavorare alla costruzione di un nuovo partito liberale che appoggi la Meloni
Nuovo governo, prima la Lega deve capire che anima scegliere
Dati elettorali evidenti portano a considerare che Giorgia Meloni dovrebbe ben presto esser ricevuta al Quirinale affinché il Presidente Mattarella ne sondi l’ipotesi di Governo a guida della leader di Fratelli d’Italia. Attorno a lei la Lega è l’unico partito della colazione che accusa fortemente il colpo elettorale. In un certo senso, sempre su Affari italiani (con l’editoriale del 24 luglio scorso), la conduzione a minoranza di Salvini era stata preannunziata.
Al netto di previsioni, il dado è tratto e c’è in ballo anzitutto la finanziaria da varare e deliberare entro dicembre. Motivo per cui la nascita del nuovo Governo potrebbe temporeggiare per ovvia ragion di Stato, ma anche di maggioranza dal momento che, come è risaputo, il Ministro dell’economia deve essere molto gradito al Colle e dare garanzie, in termini di profilo, sul fronte europeo e internazionale (occidentale ovviamente).
“Più pende, più rende” è la frase tipica del mondo contenzioso. Per paradosso potrebbe valere anche in questo frangente politico se solo si pensa al fatto che la contesa nella Lega di Salvini si sviluppa su due direzioni almeno: una abbracciata alla Lega Nord, l’altra alla Lega per Salvini premier. Maroni e Castelli, all’indomani dell’esito elettorale, hanno chiesto immediatamente l’apertura della crisi di segreteria politica leghista. Si ma, appunto, di quale delle due anime si sta parlando?
Perché a seconda della direzione di analisi, Salvini potrebbe affermare che la riduzione della Lega a forza di minoranza nella coalizione di centrodestra è dipesa direttamente dal filo-governismo indotto da Giorgetti e Zaia. Viceversa, altrettanto scaltramente, Salvini metterebbe all’angolo opposto proprio chi chiede la sua testa sul piatto di Pontida perché se quest’ultima è ancora viva (vedasi la partecipazione registrata alla manifestazione di settembre prima del voto) è proprio per l’assenza dalle prime linee del tandem che chiede, velatamente, le dimissioni stesse. Questa fase ballerina implicherebbe che Salvini possa rivendicare che tutti i parlamentari sono in quota nazionale, mentre i febbricitanti per la conquista della segreteria sono i residuanti del primo leghismo bossiano (cioè la Lega nord). Entrambe le strade, comunque, indeboliscono non tanto il potere contrattuale di Salvini nel prossimo Governo perché, da ora in poi, contano i parlamentari e non i voti.
Cosicché potrebbe aprirsi un dualismo endogeno nel mondo leghista: la “secessione dei secessionisti”; quelli storici per intendersi, oggi, vestiti di iper-autonomismo differenziato. Inquadrato il momento della Lega, teniamo presenti i numeri di maggioranza: al Senato, tolti i sentori a vita, il differenziale sarà poco più di una trentina (come riporta la scacchiera di pagellapolitica.it). Allora, c’è un’ipotesi che dovrebbe interessare le vie tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama: viste le difficoltà di composizione, Giorgia Meloni, qualora dovesse chiederlo il Capo dello Stato ovviamente, dovrebbe cercare un allargamento ulteriore per motivi di tenuta sociale del Paese rispetto alla crucialità del momento. Indicato numero uno sarebbe il pontiere Matteo Renzi che per ulteriore risposta istituzionale al Colle non potrebbe dire niet alla chiamata di responsabilità così diventando il filo diretto per far entrare in gioco tutta l’area Calenda (che non altro ha recuperato ex forzisti e draghiani di ferro).
Si potrebbe quindi avere un colpo di scena o più di uno: Daghi rimane a Palazzo Chigi fino alla finanziaria mentre la Lega si scompone di due livelli verticali di interlocuzione (quello parlamentare, quello regionalistico); diversamente Giorgia Meloni sale al Quirinale per avere l’incarico a formare il Governo e con la spaccatura della Lega a monte resiste fino a luglio/settembre venturo per ipotecare, quantomeno, la finanziaria dell’anno prossimo; nel frattempo Berlusconi e Renzi preparano un grande contenitore liberale, riformista e democratico, quale cuscinetto di emergenza o di evenienza (a seconda dei punti di vista), per poter creare il secondo mandato di Governo meloniano finché la Lega non esaurisca il suo ritorno alle origini e/o i salviniani nazionali non si imbucheranno nella dimensione dell’oltre Po' (una sorta di listone Salvini) per non rimanere inchiodati a Pontida.
Chissà che prima o poi non ci si ritroverà proprio Matteo Renzi al Ministero degli Esteri (ad esempio) in un governo che si appresta a giurare fedeltà a Washington e, pertanto, ha bisogno di superare l’indecisione cronica di rendere omogenea un’area di liberali, conservatori e riformisti. Sulle sponde del Tevere (oltre Po) è quel che si inizia a pensare per il dopo Mattarella. Che c’entra? Si chieda a Mario Draghi dove è rimasto bloccato il Governo uscente. Proprio lì, all’inizio della salita che va da Piazza Colonna verso il Quirinale. Mentre il Paese aspetta di capire come saldare il conto. Salato.
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