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Palazzi & potere
Governo, crescono le azioni di Marco Minniti

La linea ufficiale dei Cinquestelle resta sempre la stessa: o Di Maio o niente. Ma è solo quella ufficiale perché, in realtà, si starebbe già trattando con le altre forze politiche a cominciare dalla possibilità di rinunciare ad alcuni ministri presentati dai Cinquestelle nelle scorse settimane o addirittura, si dice, Di Maio stesso sarebbe disposto a rinunciare allo scranno di Palazzo Chigi. E questa sì che sarebbe una notizia, scrive Italia Oggi,anche perché il capo politico dei 5 Stelle non avrebbe, almeno stando allo Statuto attuale del Movimento, un'altra chance di fare il premier: le prossime elezioni infatti, con tutta probabilità, sarebbero appannaggio di Alessandro Di Battista.

Ad ogni modo gli sherpa grillini sono in movimento. Luigi Di Maio vuole dare a tutti i costi un governo al paese e, per far questo, non può prescindere da un buon rapporto con il Colle: da un lato deve ottemperare alle richieste che da lì gli perverranno e dall'altro deve fare in modo che non vada sprecata questa chance di governo per il Movimento, non vuole dare delusioni ai milioni di elettori che lo hanno votato e quindi, spiegano ambienti pentastellati, sarebbe disposto persino a fare un passo indietro o di lato sulla via di Palazzo Chigi.

Una volta vista l'impossibilità di mettere in piedi un governo politico che faccia capo a uno dei due contendenti, Di Maio o Salvini, i vincitori delle elezioni potrebbero decidere, assieme a Mattarella, di dare vita a un governo di scopo o istituzionale. Un governo che durerebbe, al massimo un anno, per fare fondamentalmente un paio di cose: il varo della legge di Bilancio per il 2018 e una nuova legge elettorale con cui tornare a votare nel 2019 insieme alle Europee.

Anche in questo caso, i vincitori delle elezioni potrebbero trovare l'accordo sul ritorno al Mattarellum, sul maggioritario a doppio turno alla francese per compattare le coalizioni oppure semplicemente aggiungendo un premio di maggioranza all'attuale Rosatellum. In tal modo chi tra i due, Lega o 5Stelle dovesse vincere le prossime elezioni potrebbe governare per cinque anni veri.

Ma chi potrebbe essere dunque il nome giusto per mettere d'accordo tutti e dare vita a un governo del «compromesso alto» ispirato al «forte senso di responsabilità» come ha chiesto il capo dello stato? Qual è il nome che secondo i grillini potrebbe trovare la quadra e mettere d'accordo tutti?

Ebbene, al di là dei nomi improbabili di presunti tecnici o di riservisti della Repubblica fatti girare ad arte sui media dai poteri forti nostrani (ma sono nomi che in realtà non hanno alcun reale consenso tra le forza politiche e nel paese) c'è un nome che sta iniziando a circolare in queste ore nelle riunioni più riservate: è quello di Marco Minniti. Un nome che non dispiacerebbe nemmeno al centrodestra perché l'idea che circola in queste ore sarebbe questa: affidare le presidenze delle camere ai vincitori delle elezioni e poi un governo con un nome super partes che possa attuare alcuni punti programmatici qualificanti presi dal programma dei vincitori delle elezioni (oltre alla riforma della legge elettorale): per questo si parla di Minniti, un nome passpartout che ingolosisce i 5Stelle anche per Palazzo Chigi.

Insomma, continua Italia Oggi, l'attuale ministro degli interni potrebbe essere il capofila di un governissimo con l'ok dei pentastellati e che certamente non potrebbe dispiacere al centrodestra (il «modello Minniti» sulla gestione dell'immigrazione è piaciuto così come sono ancora freschi i recenti elogi del Giornale di Berlusconi: «Minniti guarda all'interesse dell'Italia e dei suoi cittadini»).

L'idea, come si è detto, sarebbe quella di avere un governo che possa fare due o tre cose importanti prese dai programmi dei vincitori delle elezioni (oltre a una nuova legge elettorale) prima di andare nuovamente al voto. E allora forse bisognerebbe partire proprio da qui per capire l'attacco a freddo, per certi versi inusitato, portato da Matteo Renzi a Marco Minniti durante la conferenza stampa delle dimissioni dal Pd. Far passare il caso Pesaro dove è stato sconfitto Minniti come il simbolo del disastro Pd non è stato certo un gesto cavalleresco. E forse non è stato un caso.

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