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Palazzi & potere
Trump ha difeso i lavoratori americani firmando questo accordo con la Cina

Dopo il clamoroso accordo commerciale fra gli Usa e la Cina, spiace infierire sulla stragrande maggioranza degli specialisti occidentali di relazioni internazionali e di politica economica che, esprimendosi, sussiegosi, con la bocca a culo di gallina, si stracciavano le vesti davanti a un parvenu come l'attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, da loro inflessibilmente definito come un grossolano sensale di appartamenti che non sapeva districarsi fra le complessità del mondo moderno. Complessità che invece loro, in collegamento con sterminati computer e sofisticati algoritmi, credevano di decifrare, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi. Anche se computer ed algoritmi spesso ti rispondono con quello che desideri che ti rispondano, in base alle stracotte, ma mai messe in discussione, assumptions.

A partire da George Bush senior ma poi proseguendo con Bill Clinton, George Bush junior e Barack Obama, la loro politica, a questo proposito, è sempre stata la stessa, anche se due presidenti erano democratici e due erano repubblicani, a dimostrazione che, nonostante le feroci battaglie elettorali combattute dai loro sostenitori, le leadership apicali dei due partiti fanno sostanzialmente parte dello stesso gruppo sociale e di potere, condividono le medesime scelte di fondo e guardano, saccenti, il resto del mondo, dall'alto dei loro uffici newyorkesi al ventesimo piano e oltre, che ti danno la sensazione di volare sulle piante del Central Park.

Tutti costoro, in base a teorie economiche maturate a partire dal tardo Settecento, si sono battuti per spalancare tutte le frontiere, liberalizzare gli scambi, toglier le barriere, inneggiare alla mondializzazione senza se e senza ma. È vero che il protezionismo produce dei grossi guai, ritarda la competizione (a danno dei consumatori) e riduce la spinta all'innovazione tecnologica che è il lievito dello sviluppo economico. Ma la tanto adorata liberalizzazione assoluta non teneva conto, ad esempio, che, rispetto al 700, oggi disponiamo di mezzi di comunicazione istantanei (il web), gratuiti e che coprono il mondo intero. Con essi, i mercati sono immediatamente interrelati. Non solo, ai galeoni di un tempo, spinti dalla forza capricciosa dei venti, quando non da schiavi legati ai remi, si sono nel frattempo sostituite le enormi navi portacontainer che, in un solo viaggio, spostano, da una parte all'altra del mondo, la stessa quantità di merce che un secolo fa spostavano tutti i galeoni in un intero anno.

Non solo, mentre un tempo le economie dei paesi manifatturieri disponevano solo di braccia o di macchine rudimentali, con più bassa produttività rispetto ai paesi avanzati economicamente, adesso in Cina, tanto per fare un nome (ma non è certo il solo paese a trovarsi in queste condizioni), possiedono, se non altro perché dispongono di un più recente sistema industriale, sistemi robotizzati estremamente efficaci e totalmente all'avanguardia che sono capaci di ingolfare il resto del mondo con i loro prodotti.

Nel liberalizzare senza limiti e verifiche credibili il commercio internazionale, non si è tenuto conto che nei paesi un tempo poveri e ora di recente e spesso anche forsennata industrializzazione non esistono sindacati credibili, in grado di far cresce i salari con la libera contrattazione, né si tiene conto dei vincoli ecologici che sono sempre, e comprensibilmente, più richiesti, e spesso imposti, dalle opinioni pubbliche dei paesi sviluppati.

La bilancia della concorrenza è quindi alterata e la competizione fra diseguali ha prodotto un'eccessiva deindustrializzazione con effetti sociali devastanti. Nella Rust Belt del Midwest (Usa) dove è stata smantellata gran parte dell'industria siderurgica, il paesaggio è stato ridotto ad uno scenario alla Blade Runner con intere città cancellate, strade squassate del vento e della polvere, vagabondi in giro senza meta. In una di queste città desertificate sono sorti nel frattempo degli inspiegabili impianti modernissimi, con attorno torme rassegnate di giovani vagabondi. Questi impianti, altrimenti inspiegabili, erano di alcune multinazionali che prelevavano il sangue dai disoccupati che traevano da quei salassi i pochi dollari per poter vivere.

L'inchiesta su questo inferno è stata fatta dalla rete tv pubblica franco-tedesca Arte ma nessun italiano ne ha mai avuto notizia. Anche perché la Rai se ne è ben guardata dal diffonderlo e gli altri media dal parlarne. Adesso con i dazi minacciati da Trump, la United Steel che aveva smantellato quasi tutte le sue fabbriche ha ricominciato ad aprirne delle nuove negli Usa mentre, ad esempio, Lwmh ha deciso di aprire grandi stabilimenti per la produzione in Usa della sua pelletteria.

Per cambiare il senso del fumo, ci voleva un tizio (certamente grossolano e semplificatore com'è Trump) che fosse in grado di rovesciare i tavoli truccati sui quali si è sinora operato e riuscisse a stabilire delle trattative credibili con la Cina, oltre che con gli altri paesi che si trovano nelle stesse condizioni. Queste trattative non riescono certo farle gli esausti professori di modellistica economica o politici salottieri avvolti nel politically correct che dei dissanguati (letteralmente) del Michigan o dell'Illinois non sanno niente e soprattutto non ne vogliano sapere niente.

L'accordo Usa-Cina (che alcuni, i soliti, già si affrettano a definire come un accordo «mini»: nessuno ama prendere le porte della realtà in faccia), questo accordo, dicevo, se lo si colloca nel quadro poc'anzi delineato, è un accordo salutare, opportuno e stabilizzatore perché, piallando le insostenibili asperità della collaborazione commerciale squilibrata fra le due grandissime aeree economiche, consente di ripartire con il piede giusto nell'interesse di tutti. E cioè non solo delle due potenze politico commerciali coinvolte in prima linea ma, in prospettiva, anche nell'interesse del mondo intero.

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