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Politica
Renzi addio, ponte verso Bersani. Come cambia il Pd con Letta leader

Con Enrico Letta, il nome forte in campo per la guida del Nazareno, stavolta davvero il Pd si gioca la sua ultima carta. Sempre ammesso che l’ex premier sciolga la riserva e decida di rientrare da Parigi (rumor di Palazzo lo darebbero pronto a tornare attivamente nell’agone politico). Il partito, da sempre dilaniato dalle correnti e sempre pronto a farsi concavo e convesso a seconda del segretario di turno, oltre che abile a divorare chiunque ne abbia assunto la guida, è infatti arrivato al giro di boa. Ristrutturarsi o implodere, tertium non datur. Comunque, la condizione numero uno che avrebbe posto lo stesso ex presidente del Consiglio per accettare sarebbe quella della maggiore unità possibile intorno alla sua candidatura. E’ vero che si tratterebbe di una garanzia scritta sull’acqua – non si spiegano altrimenti le piroette del partito dalla sua nascita a oggi e quindi il suo essere, a seconda delle stagioni e dei leader (8 in 13 anni), ora veltroniano, ora franceschiniano, ora bersaniano o renziano -, ma almeno garantirebbe una sorta di disarmo inziale per iniziare a lavorare. Perché di lavoro da fare in casa dem non ne manca. L’esigenza prioritaria, avvertita davvero da tutte le anime democratiche, al netto di chi la agita solo come foglia di fico per ridefinire poteri ed equilibri, è quella di capire che profilo deve finalmente assumere il Pd, quali obiettivi darsi e che missione perseguire.

Ma nel frattempo, con il coniglio-Letta che Dario Franceschini avrebbe tirato fuori dal cilindro, già si comincia a intravedere una rotta. Nessuna cesura, tanto per cominciare, con il lavoro svolto dalla segreteria Zingaretti. Da nuovo inquilino del Nazareno, dopo essere riuscito nella sua esperienza a palazzo Chigi a tenere insieme Pd e parte del centrodestra (in maggioranza c’erano Ncd di Alfano e Scelta civica, ndr), difficilmente sbarrerebbe le porte al dialogo con il Movimento cinque stelle.
L’effetto Letta, però, potrebbe riverberarsi anche su quell’area di sinistra ormai fuori dal perimetro dem, a partire dagli ex piddini confluiti in Articolo uno. Gli indizi in questo senso non mancano. Proprio stamani, per citarne uno, Pierluigi Bersani, ospite di Agorà, ha ricordato il rapporto con il suo ex numero due quando era segretario: “Letta ed io – ha sottolineato - siamo la prova vivente che in quel partito una volta si poteva lavorare assieme in vera amicizia e in vera lealtà”.

Un sentire per nulla lontano da quello dello stesso ex presidente del Consiglio. E già dai tempi in cui l’esponente pisano del Pd fu “defenestrato” dal governo. Una traccia significativa la si trova scorrendo, per esempio, le pagine di “Titanic – Come Renzi ha affondato la sinistra”, dato alle stampe dalla giornalista e già direttore della tv YouDem, Chiara Geloni. C’è un passaggio del libro, infatti, in cui l’autrice riporta proprio un sms dell’ex premier, dopo il suo addio a palazzo Chigi e la fiducia all’esecutivo Renzi. “Se Pier Luigi non si fosse ammalato, se fosse stato qui in queste settimane, non sarebbe andata così. Non sto dicendo che non sarebbe successo niente, ma non sarebbe successo in questo modo”. Un sms in cui è racchiuso il Letta-pensiero sull’intera vicenda e, quindi, la sua convinzione che se Bersani fosse stato presente, magari le sorti dell’esecutivo non sarebbero cambiate, ma le modalità sarebbero state diverse. Non così brutali e traumatiche, insomma. Da qui a ipotizzare un ritorno al Nazareno dei fuoriusciti ce ne passa. Al di là delle persone, infatti, tutto dipenderà dal progetto che il Pd sarà in grado di costruire. Ma soprattutto dal modo in cui tale progetto sarà elaborato, se sarà dunque frutto di un lavoro collegiale e non ancora una volta la risultante dei soliti caminetti.

Una cosa, però, pare certa: l’economista pisano può rappresentare un ponte verso Articolo uno, ma di sicuro è un portone sbarrato a doppia mandata a Matteo Renzi. Difficile se non utopico immaginare una ricomposizione dei rapporti tra i due, dopo quel famoso #Enricostaisereno, preludio al tramonto del suo esecutivo.
“Porta aperta a Renzi no, ma ai non renziani in area Renzi sì”, è l’analisi che fa più di una fonte incrociata da Affaritaliani alla Camera. E, in effetti, c’è chi fa, per esempio, il nome di un esponente di Iv come Giacomo Portas: “Potrebbe pensare seriamente di tornare nel Pd. Ma non è escluso neppure un avvicinamento di Riccardo Nencini”. Il senatore socialista, collocandosi nell’alveo dei costruttori, all’epoca del tentativo di dar vita a un Conte ter, si era già allontanato dal leader di Rignano. Insomma, paradossalmente, a Letta potrebbe riuscire in parte quell’impresa in cui proprio Giuseppe Conte ha fallito e cioè svuotare Italia viva.

E che dire di Carlo Calenda? E’ vero che oggi ha preso il via il comitato scientifico di stampo liberaldemocratico “Programma per l’Italia”, presieduto da Carlo Cottarelli e di cui fa parte anche Azione. Ma è altrettanto vero che Calenda ha fatto parte della squadra di governo capitanata da Enrico Letta.
Prima di fare ogni tipo di ragionamento, comunque, bisognerà aspettare un segnale da Parigi dove l’ex parlamentare dem dirige la Scuola di Affari Internazionali di Sciences Po. Quarantotto ore ancora - è il tempo che si è dato per “riflettere bene e poi decidere” – e poi la direzione che imboccherà il Pd sarà più chiara. Quarantotto ore di trepidazione pure per il segretario dimissionario Nicola Zingaretti. Se l’ex allievo di Andreatta accettasse la sfida di prendere il timone del Nazareno, infatti, non c’è dubbio che “salverebbe” lo stesso governatore del Lazio. Perché, in caso di rifiuto, come raccontano ad Affari, “proprio a lui e alle sue dimissioni inaspettate verrebbe imputata la responsabilità dell’implosione del partito. Una lettera scarlatta che difficilmente potrebbe scrollarsi di dosso”.

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