Politica
Renzi prepara il "coup de theatre". Dimissioni dalla segreteria Pd e poi...
S’illude chi, dentro e fuori il Pd, pensa a un Matteo Renzi sulla difensiva
Di Massimo Falcioni
S’illude chi, dentro e fuori il Pd, pensa a un Matteo Renzi sulla difensiva, addirittura in disarmo, pronto all’autocritica e deciso a calar le brache per un accordo con le minoranze interne nella direzione nazionale di lunedì, in primis su elezioni, legge elettorale, liste, congresso. Renzi ha il chiodo fisso della rivincita: è sul piede di guerra, ha allertato i suoi, dal centro alla periferia, ha messo sul conto anche la scissione deciso in qualsiasi modo a chiudere la partita con gli oppositori interni e a riprendere il cammino verso Palazzo Chigi. L’obiettivo del segretario resta quello delle elezioni politiche anticipate entro giugno, un obiettivo non impossibile ma assai improbabile, abbordabile se Gentiloni e il suo governo vanno ko. Così l’ex premier gioca d’anticipo con un possibile “coupe de teatre” alla direzione di lunedì: immediate dimissioni da segretario, subito congresso, poi elezioni a giugno. Se così sarà, è una evidente forzatura dell’ex premier per non farsi bruciare a fuoco lento dai suoi avversari, costretti così a uscire dalle loro trincee. E’ di fatto il seguito dopo la mozione parlamentare di 40 suoi deputati contro il paventato aumento delle accise su benzina e sigarette: una mozione anti-tasse dei renziani ad uso e consumo della lotta dentro e fuori il Pd, un perentorio segnale di “alt” all’esecutivo, un grimaldello che può sfociare anche nella caduta del governo con lo sbocco delle elezioni. Un atto di tale portata politica non può essere stato condotto all’insaputa del segretario del partito che può averlo ispirato per saggiare il terreno e vedere l’effetto che fa pronto anche a sfiduciare Gentiloni con il pretesto del NO alla manovrina di aprile, un’altra stangata da 3,4 miliardi di euro, con nuovi danni elettorali per il Pd sempre più identificato dai cittadini nel partito dei bla-bla e delle tasse. La mossa – per molti un harakiri per Renzi e per il Pd - ha infastidito e irritato il premier e il ministro dell’economia sprigionando nuove scintille in un clima già arroventato in vista dell’annunciato match nella direzione di lunedì, attesissima dagli addetti ai lavori (specie se Renzi si dimette da segretario) ma di scarsissimo peso per la gente comune.
Questa interminabile disputa dentro il pidì è diventata stucchevole lasciando gli italiani indifferenti e disgustati. Il motivo è semplice: il braccio di ferro fra capi e capetti delle varie correnti piddine riguarda i posti di potere e solo marginalmente i contenuti politici. Se in zona Cesarini si giunge a un armistizio fra maggioranza e minoranze significa che la spartizione delle future poltrone in Parlamento soddisfa chi oggi teme l’esclusione. Se invece c’è rottura significa che Renzi non concede niente o quasi ai suoi avversari interni avviando il redde rationam finale. Non ci saranno né vinti né vincitori, solo un campo di macerie.
Al di là dei contorsionismi verbali è su questo tira e molla per il potere che si giocano lunedì le sorti del Pd: partito in mezzo al guado, corroso dalle divisioni e sotto il tiro dalla scissione, in discesa nei sondaggi elettorali, con il tesseramento in caduta libera, con una identità smarrita e una immagine offuscata quando non torbida, senza progetto politico, con un leader contestato e sotto processo per i rovesci elettorali delle amministrative e del referendum costituzionale.
Il Partito democratico non è il responsabile di tutti i mali d’Italia ma ha sprecato una grande occasione storica, bruciando un patrimonio ideale culturale politico, incapace di spostare in senso riformatore gli equilibri politici e sociali di un Paese stretto nella tenaglia di una crisi generale, non solo economica.
In 10 anni di vita il Pd ha spesso illuso senza mai convincere e l’ultima fase, quella del renzismo rombante, ha reso ancora più evidenti i limiti di un partito di “fratelli coltelli”, lesto nel cancellare un passato di poche luci e molte ombre ma incapace di riscrivere un progetto politico innovativo, credibile, adeguato ai tempi. Renzi, conquistato il partito più per limiti dei suoi competitors che per lo “spessore” della propria leadership e della sua visione strategica, “estromesso” Enrico Letta da Palazzo Chigi, è entrato tronfio nella “stanza dei bottoni” uscendone con le ossa rotte, con una Italia più debole e divisa, un partito collassato. Renzi e il suo cerchio magico leopoldino si sono fatti abbagliare dal potere confondendo il dito con la Luna. Così il quadro politico modificato a favore di una mai precisata “nuova” sinistra non ha fin qui spostato nulla in positivo, ha anzi peggiorato la realtà perché è proseguito e prosegue col Pd (e i suoi governi) il gioco che – in tempi diversi e con altra dignità – fu fatto col Psi del centro-sinistra e anche col Pci del compromesso storico: di fatto una annessione subdola da parte dei poteri forti di quella sinistra o di quella parte progressista disposta a “costituzionalizzarsi” o per bramosia di potere o per illusione, o per ingenuità politica. Renzi ha solo rimasticato ricette di “sinistra” già fallite e inadatte alla rivoluzione dei cambiamenti mondiali, non ha indicato una via nuova della sinistra riformista, non ha estirpato alla radice nessuna pianta maligna che soffoca e avvelena il Paese, ha fatto della “rottamazione” il perno della sua strategia sempre più spostata a destra producendo solo un mare di parole gabellate per fatti, un revisionismo senza capo né coda. Il risultato? Un Pd dilaniato e sempre più sul piano inclinato, il ceto medio ridotto in cenere così come i diritti e il potere d’acquisto dei lavoratori e dei ceti più deboli, la disoccupazione giovanile al 40&, il debito pubblico che vola. Da qui la delusione degli elettori, la frattura fra cittadini e politica, il terreno favorevole per l’onda dell’antipolitica del M5S (nato come partito di radicale opposizione al sistema, non ad un governo) e del populismo di chi strumentalizza la situazione e punta al “tanto peggio tanto meglio”. I partiti non fanno più politica ma il Pd non fa eccezione. I partiti occupano lo stato ma il Pd è il primo a farlo, ridotto a macchina di potere e di clientele, senza neppure più il tentativo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. Il disagio, la precarietà, la non sicurezza, le disuguaglianze, le ingiustizie, la commistione politica-affari, l’irrisolta questione morale, provocano nei cittadini sempre più esclusi e senza risposte alle loro esigenze, smarrimento e chiusura, con una reazione che sul piano politico produce l’astensionismo elettorale e il voto a Grillo&C. E’ oggi Renzi la diga in grado di contenere l’avanzata dei populismi magari con una alleanza di governo fra il suo Pd e Berlusconi? Non scherziamo! Idem per D’Alema&C, pronti a rimettere insieme i cocci di una nuova sinistra d’opposizione dei “pochi ma buoni”. Alternativa cercasi. La misura è colma e il teatrino del Pd in confusione e dei tanti candidati leader senza più truppe può essere la classica goccia che fa traboccare il vaso. Di troppe elezioni si può morire. Ma l’ultima parola spetta (sempre) al popolo.