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Sport
Bivio Volante, esempio di vero calcio fra giovani talenti e ragazzi ruspanti

Bivio Volante, il calcio vero giocato sui campetti di provincia 

Il calcio, quello vero, non si gioca tanto sui campi milionari, foderati di verdi dollari, quanto sui campetti di provincia, con ciuffetti d’erba rigogliosi e fieri, anch’essi verdi, ma di un verde che cambia con il sole e il caldo, come i quadrifogli, come certe maglie sudate, campetti che sembrano essere lì da sempre, come quello che a Pianello Val Tidone cura ogni giorno il signor Renato, arzillo tifoso del paesello, che riceve il suo compenso incitando dagli spalti il suo idolo, bomber Benzi, ogni domenica. 

E così, tra un procuratore avido, un sorteggio sbagliato e pieno di sospetti o un pareggio in Irlanda di volubili campioni dal grande portafogli, capita di scoprire storie di amicizia e sportività, come quella del Bivio Volante, squadra ruspante e più che mai combattiva, fondata nel 1977 proprio come quel Paris Saint Germain che raccoglie ormai fior di affaristi più o meno in età pensionabile o giovani presunti talenti con molta boria e qualche problema con i libri di storia. 

Nel Bivio funziona all’opposto: non si paga nessuno, nemmeno un euro. Chi gioca lì lo fa per il piacere di correre sul campo circondato dagli amici. Quarantaquattro anni, tutti in terza categoria, tra le colline che partono dal Po e raggiungono gli appennini, degradando tra valli e scale di grigio e verde, di tonalità ora spente ora accese, a seconda della stagione, e qualche volta bianche, come la neve che le copre nei mesi invernali.

Strisce orizzontali, che si rincorrono come onde di vette smussate e valli, sempre e solo verdi, ancora verdi, come la maglia di questi ragazzi. Una trentina di amici che si allenano due volte a settimana, dopo il lavoro, nel campetto perso tra nebbie wordsworthiane, a Campremoldo, dove ci sono forse sedici casi e due osterie, una Chiesa, il cui Parroco gestisce le chiavi del campo e la passione per quella sfera calibro 5. 

Ormai quasi tutti, chi ufficialmente e chi no, pagano i giocatori, in qualsiasi categoria. Quasi tutti, salvo rare mosche bianche o bianco verdi. Chi prende i cinquanta euro della benzina sempre più cara, chi qualche migliaio di monetine da un euro di rimborsi, perché come Messi ha deciso di chiudere la carriera in una comfort zone dove tutti ti guardano come una mezza leggenda, per quanto locale. Un po’ come il bullo del paese che non picchia più nessuno, ma passa le serate al bar a raccontare le sue lotte di un tempo, tra una birra e una sigaretta un po’ storta.  

C’è di fatto un curioso parallelismo tra PSG e Bivio Volante, un ossimoro, un bipolarismo fatto di antipodi. Da un lato un ricco sceicco, che brama la gloria attraverso le grandi orecchie di una coppa che sembra avere un’anima e che certi spogliatoi non li ama, e per tal fine giustifica i mezzi in un machiavellico sforzo finanziario, praticato da un Leonardo che non viene da Vinci e che in fondo nemmeno vince. Dall’altro un presidente, Graziano Bobba, che di mestiere fa il tributarista, fa i conti, e mette tutto l’impegno e la passione in una squadra di bravi ragazzi, come fossero trenta figli, non solo quello che di solito veste la maglia numero 8.

C’è un allenatore, Simone Schiavi, che ha una carrozzeria e che ha sempre giocato a calcio. È al Bivio da tre anni, con lo spirito e la voglia di tenere in vita una piccola realtà che è ormai per tutti loro una piccola famiglia. Simone è uno che tiene unito il gruppo, che ama più di tutto passare del tempo con i ragazzi, le cene tutti assieme, le partitelle del Venerdì e la tensione della Domenica.
Graziano che ce la mette tutta per non far mancare niente, Simone che fa da fulcro, da punto di equilibrio tra chi ha avuto, nel tempo, un ruolo e una storia, proprio come avviene in campo. 

C’è anche un ragazzo di origini senegalesi, Mohamed Dabo. Per il presidente è come un secondo figlio. Lui entra quasi sempre nel secondo tempo, corre lungo la fascia di destra. Corre fortissimo, sembra Jacobs. Quando parte lui la tribuna si accende, perché vederlo correre è impressionante. Moh, come lo chiamano tutti, è un ragazzo sempre sorridente, come Rafa Leao, un po’ timido, pieno di amici, perché solo a guardarlo ti mette simpatia. Gli manca forse un po’ di cattiveria, di grinta agonistica, ma si farà. Ha solo ventidue anni e tante idee in testa.

(Segue il racconto...) 

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