Sarah Viola: "Per i reati nati dal disagio mentale servono gli psichiatri"

L'affermata specialista spiega: "Covid e guerra hanno aumentato un disagio che si manifesta con modalità nuove. E molto preoccupanti"

Di Lorenzo Zacchetti
Sarah Viola durante la puntata odierna di "Ore 14" su Rai 2
Cronache
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"Perrino ha ragione: alle Forze dell'Ordine vanno affiancati degli specialisti"

Sarah Viola è una psichiatra molto nota al pubblico televisivo. Grazie alla sua lunga esperienza (è, tra l’altro, Consulente del Tribunale di Bergamo e del Tribunale dei Minori di Brescia, dove è anche Giudice Onorario) viene spesso invitata nelle varie trasmissioni per fare chiarezza sui casi di cronaca nera più efferati e controversi. Presenza abituale a “Ore 14”, su Rai 2, ha seguito con interesse la discussione suscitata dall’intervento del direttore di affaritaliani.it Angelo Maria Perrino in merito alle nuove tipologie di reato e all’azione di contrasto da parte delle Forze dell’Ordine: “Il direttore ha ragione su un punto fondamentale: siamo di fronte a un cambiamento radicale nella delinquenza e nella commissione dei reati. Oggi la scena del crimine è spesso occupata da delitti che non hanno quasi mai alla base i moventi classici, come arricchimento o vendetta. Sempre più spesso i reati nascono dai legami familiari e di sangue. Sono nuove forme di reato che richiedono una attenzione particolare, non solo per la frequenza, ma anche per la gravità e l’efferatezza con cui questi fatti si commettono. E poi c’è anche un altro aspetto: alcuni reati si possono prevenire”.

Esistono dei segnali che permetterebbero di intervenire prima che tali reati vengano commessi? 

“Sì, certo, esistono, ma il grosso problema che noi viviamo in un paese nel quale viene rimosso un fatto fondamentale: oltre a un corpo abbiamo una psiche, che può ammalarsi così come il corpo. Quando questo accade, possono verificarsi casi gravissimi. L’italiano medio non accetta di avere una dimensione psicologica, la nega totalmente o, quando la accetta, se ne vergogna moltissimo, si sente in colpa e quindi non chiede aiuto. E anche quando vede un familiare manifestare dei problemi di equilibrio psicofisico, lo nega… anche a se stesso! Un perfetto esempio è il caso di Semerate: si parla di ‘famiglia modello’, perché non si sono colti i segnali che poi hanno portato ai drammatici sviluppi raccontati dalla cronaca. Questo tipo di descrizioni nascono da una posizione di negazione della dimensione psicologica”. 

Non sempre questi segnali sono semplici da leggere: come è possibile riuscire a coglierli?

“Proprio perché non sempre sono così eclatanti, come sottolineava il direttore, servono delle indagini che non possono prescindere da una formazione tecnica di tipo psicologico. Senza nulla togliere al loro eroismo e al loro coraggio, le Forze dell’Ordine non hanno questa formazione specifica. Vanno affiancate (anche sulla scena di un crimine comune) da uno specialista. Ci vuole uno psichiatra, non uno psicologo, perché il primo è un medico ed è dunque abituato a fare diagnosi e a occuparsi di terapia. Un’intervista clinica condotta da uno psichiatra è diversa dall’interrogatorio di un poliziotto. Anche l’ascolto degli indagati nelle prime battute andrebbe fatto sempre da uno psichiatra, perché c’è modo e modo di dissimulare e di mentire, anche da parte di un delinquente comune. Soprattutto per i reati che hanno come tessuto di origine un legame familiare, la presenza di una figura formata tecnicamente a interpretare i segni e i sintomi (verbali e non) di un disagio psichico oggi dovrebbe essere inevitabile”. 

Questo quando il delitto è stato già compiuto, ma rispetto alla prevenzione cosa va fatto?

“Innanzitutto una campagna culturale, nella quale proprio voi giornalisti dovreste essere in prima linea. Come dicevo, siamo lontani da una posizione matura e consapevole: neghiamo che ciascuno di noi ha una psiche. E se un papà negli ultimi tempi alza la voce o addirittura alza le mani, quel papà non sta bene, così come chi ha il diabete”.

Ma questo disagio profondo può essere letto dalle Forze dell’Ordine o è sempre necessario affiancare loro dei professionisti specializzati?

“Senza nulla togliere alle Forze dell’Ordine, la loro professionalità non è sufficiente, perché in merito alla psiche sono come tutte le altre persone non qualificate. E spesso chi non lavora nella psichiatria dice delle cose… folli. Ciò che per noi è scontato, per chi non si occupa di psiche non è nemmeno leggibile. E nemmeno lo si può pretendere: sarebbe come pensare che un carabiniere chiamato sulla scena dove è crollato un ponte, sapesse che è stato a causa del calcestruzzo di bassa qualità! E nemmeno lo possono capire i giudici, che spesso ci chiedono se l’accusato di un reato fosse in grado di intendere e di volere al momento dei fatti, molti anni prima! E come possiamo dirlo? Se ci fosse stata la perizia di un collega al momento giusto, allora sarebbe stato possibile. Altro problema è che lo psichiatra viene chiamato quando si vuole scagionare un colpevole: quindi la gente ci vede come chi giustifica il delinquente, anche se non è così (per avere una attenuante bisogna dimostrare che in quel momento specifico il soggetto non era in grado di intendere e di volere). Lo psichiatra serve per capire cosa è successo veramente”. 

Quanto incide su questi reati la situazione di tensione che stiamo vivendo ormai da tempo, prima col Covid e poi con la guerra?

“Moltissimo. Ho riscontrato un aumento del lavoro del 30% e anche un forte aumento della gravità delle situazioni prese in carico. Sia il criminale da strada, sia il soggetto che ammazza per gelosia hanno modificato il loro modo di agire, sono diventati molto più incauti. Una volta il delinquente agiva ‘con il favore delle tenebre’. I delitti degli ultimi due anni invece sono ‘firmati’: molto spesso la gente ti ammazza alla luce del sole, non si nasconde, non scappa. Ciò è dovuto a un pensiero che rappresenta un’eredità del Covid: la convinzione che tanto ‘ormai non c’è più niente da salvare’. Per la popolazione generale infatti si parla di ‘burnout postpandemico’, mentre per questo tipo di popolazione che delinque invece si dice che c’è una dimensione angosciosa del ‘non c‘è più niente da perdere’. La pandemia ha tolto aspirazione verso il futuro, senso di progettualità e quindi anche di tutela. Dunque le condotte sono non-autotutelanti, ovvero di tipo suicidarie, parasuicidarie, con persone che non escono e non cercano un lavoro. Il senso di disperazione si traduce nell’idea di non avere un futuro”. 

A fronte dell’emergere di queste nuove problematiche, lei riscontra la necessità di formare nuove professionalità?

“Assolutamente sì. Infatti nei master di criminologia oggi nascono capitoli nuovi, legati alla morfologia dei fatti-reato. Devo però aggiungere un’altra considerazione: negli ultimi anni ho visto un costante svuotamento del comparto psico-sociale di ogni tipo di risorsa. Niente strutture, niente assunzioni, carenza generale di medici e, soprattutto, di operatori del comparto psicosociale. In queste condizioni, è molto difficile fare prevenzione”.

 


 

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