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L'avvocato del cuore
Lavoro: patto di prova di 6 mesi, a mia insaputa, non superato. Si può impugnare? Il parere dell'avvocato

“Il 04 Novembre 2019 sono stato assunto come Operation Manager, CCNL Metalmeccanico industria; nella lettera, al momento della firma, è stato aggiunto, a mia insaputa, il patto di prova di 6 mesi. Nonostante le mie rimostranze e nonostante avessi fatto notate che avevo lasciato (a 52 anni) un lavoro a tempo indeterminato e stabile, l’AD mi disse che era solo una “prassi“ e di non preoccuparmi. Nonostante fossi stato assunto come Operation Manager, dopo solo venti giorni venni assegnato al ruolo di Quality Manager (tutto documentato e dimostrabile). Il 13  Marzo 2020, mi hanno comunicato il mancato superato della prova. È possibile impugnarlo?” 

Le questioni poste sono parzialmente simili a quelle affrontate nella puntata dell’11 aprile 2020, a cui si rimanda per semplicità. 

Il Lettore suggerisce però due temi interessanti da approfondire: da un lato si domanda se il fatto che la clausola sia “spuntata” all’improvviso dopo le trattative e poco prima della firma del contratto sia contestabile. Dall’altro, si chiede se ha modo di dolersi della diversa attività svolta durante la prova, rispetto a quella prevista nel contratto. 

Il primo dubbio: il patto è stato inserito all’ultimo momento 

Quanto al primo quesito, pur capendo la posizione del Lettore e la sua amarezza, purtroppo le modalità “improvvise” con cui è avvento l’inserimento del patto di prova e le rassicurazioni date dall’AD circa la non effettività del patto, non sono rilevanti.

Infatti, le motivazioni per cui si decide di sottoscrivere un contratto e tutte le circostanze antecedenti la firma, ma non riportati nel testo contrattuale, sono irrilevanti.

Ciò che fa fede nel rapporto negoziale tra le parti è solo ciò che risulta dal testo contrattuale: pertanto, se il contratto prevede un patto di prova, non c’è modo di sostenere che la clausola non fosse realmente voluta. 

Ciò salvo le ipotesi eccezionali (che non ricorrono nel caso raccontato dal Lettore) della “simulazione” o dei “vizi del consenso”.

La simulazione e la sua dimostrazione

La simulazione si ha quando le parti di un contratto si accordano formalmente per una certa regolazione dei loro rapporti, ma nella realtà vogliono una cosa diversa. 

In casi come questo, si tratta di ricostruire la volontà genuina delle parti sostituendola con quella apparente, cioè quella risultante dal testo contrattuale. 

Il problema in questo caso è dato dalla prova della simulazione, poiché, ovviamente non basta la semplice parola del Lettore: egli dovrà, infatti, dimostrare la vera volontà di entrambe le parti con un atto scritto di segno opposto rispetto al patto di prova. 

Quindi, il Lettore dovrebbe, per contestare il patto di prova, esibire un testo (la c.d. “controdichiarazione”) con cui lui e l’AD dichiarano che il periodo di prova in realtà non era voluto. 

In mancanza di questo patto scritto al Lettore non rimane che tentare due strade, entrambe di natura giudiziale, come la confessione o il giuramento decisorio.

Nel primo caso l’AD dovrebbe andare davanti al giudice e dichiarare, nell’ambito di un processo, che le parti non volevano il patto di prova. Si tratta di un’ipotesi abbastanza incredibile e, quindi, non percorribile. 

Nel secondo caso, il Lettore dovrebbe fare ricorso ad un istituto che affonda le proprie radici nel sistema medioevale e nell’ordalia: infatti, con il giuramento si vorrebbe indurre l’AD a giurare in modo solenne davanti al giudice che il patto di prova non era voluto. In questo caso, l’AD sarebbe indotto a dire la verità per il timore della riprovazione morale che viene (o meglio, veniva un tempo) riservata agli spergiuri e per il timore della condanna penale connessa con il reato d falso giuramento della parte. Insomma, un’altra strada in salita.

I vizi del consenso: dolo, errore e violenza

Scartata l’ipotesi di discutere della vera volontà delle parti, il Lettore potrebbe tentare quella dell’impugnazione del patto di prova per l’esistenza di un vizio del consenso. Si tratta di quei casi, molto difficili da dimostrare, in cui la parte, non negando di aver manifestato quella precisa volontà negoziale, sostiene di averlo fatto perché indotto dagli artifici o raggiri dell’altra parte (il c.d. “dolo”), da una violenza (fisica o morale) dell’altra parte o perché sarebbe caduto in errore.

L’errore non è, come potrebbe far intendere il lemma, un semplice difetto di cognizione non qualificato: la falsa rappresentazione della realtà, per essere causa di annullamento, deve essere riconoscibile ed essenziale, cioè cadere su un elemento fondamentale del contratto. 

Nel caso del Lettore, poi, si dovrebbe al più parlare di errore di diritto, che, per essere rilevante, non può essere dovuto a semplice ignoranza della norma (ignorantia legis non excusat), ma in un errore di valutazione della situazione giuridica.

Per concludere, quindi, nessuna possibilità concreta è ipotizzabile per mettere in discussione la valida sottoscrizione del patto di prova.

Il secondo dubbio: l’attività svolta è diversa rispetto a quella pattuita

Maggiori possibilità di successo potrebbero esserci, invece, se di guarda a come il periodo di prova si è svolto.

Infatti, il datore di lavoro è assoggettato allo specifico obbligo di tenere comportamenti coerenti con l’effettivo espletamento della prova da parte del lavoratore. Una chiara violazione di questo obbligo è data dall’adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle concordate.

Si potrebbe, quindi, ipotizzare la contestazione della legittimità del recesso, ai fini di un suo annullamento.

Il possibile effetto dell’illegittimità del recesso, non potendosi applicare la normativa sui licenziamenti individuali, è però il mero risarcimento del danno.

 

* Per Studio legale Bernardini de Pace

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