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Lo sguardo libero
Il federalismo per salvare la democrazia italiana

Preoccupante la bassa affluenza di votanti ai referendum sulla giustizia e alle elezioni Amministrative chiuse ieri

Necessariamente il contesto attuale richiede centralizzazione del potere. Lo impone il sostegno all’Ucraina invasa dalla Russia da parte delle grandi democrazie occidentali - ottimo l’annuncio di 600 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture da parte dei Paesi del G7 comunicato ieri al vertice in Baviera -.  Lo esigono sia Next Generation EU, il piano per i rilancio post Covid dell’Europa da 750 miliardi di euro, la cui destinazione di spesa abbisogna giustamente di controlli, sia il PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) dello Stato italiano, che è la declinazione nazionale di Next Generation EU.

Tuttavia, la Repubblica vive una profonda crisi di rappresentanza e partecipazione democratica. Nondimeno con Mario Draghi, finalmente l’Italia, sesta potenza economica mondiale, seconda manifatturiera d’Europa, ha un leader più che degno: autorevole, pragmatico, competente, serio nel senso migliore del termine (nessuno è ovviamente insostituibile).

Eppure, dalle elezioni politiche del 2008 a oggi (includendo anche quelle del 2013 e del 2018, hanno via via governato: Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte due volte, Mario Draghi) non sempre l’inquilino di Palazzo Chigi è a tutto tondo stato espressione lineare della maggioranza parlamentare. Gli ultimi due presidenti della Repubblica sono risultato della non capacità delle forze parlamentari di accordarsi in modo coerente. Circa gli ultimi due, entrambi sono stati eletti due volte. Invece dei normali sette anni, la più alta carica dello Stato è stata ricoperta da Giorgio Napolitano per dieci anni, mentre Sergio Mattarella si appresta a rimanere sul Colle per 14 anni complessivi (laddove il cambiamento e l’alternanza sono principi  base della democrazia).

La debolezza della democrazia italiana si nota anche dalla partecipazione molto ridotta al referendum sulla giustizia del 12 giugno, che ha registrato appena lo 20,9% di votanti e quindi il non superamento del quorum. Anche il secondo turno delle Amministrative di ieri ha visto un calo di votanti al 42,16% rispetto  54,11% del primo. La gente percepisce la politica come qualcosa di lontano. Ugualmente il nuovo partito di Luigi Di Maio, “Insieme per il futuro” - che pure è apprezzabile se garantisce quella stabilità che serve sia nello scenario odierno di emergenze legate alla guerra sia a cambiare il Paese con le riforme strutturali senza badare a tornaconti elettorali - viene percepito come un movimento personalistico. Parimenti la vittoria del centrosinistra di ieri sembra avere premiato i partiti più presenti sul territorio, più vicini alle persone.  Così Damiano Tommasi sconfigge Federico Sboarina a Verona, dove il centrodestra risente delle divisioni interne e non basta il pranzo di Flavio Tosi ad Arcore da Silvio Berlusconi.

Come avvicinare i cittadini alla democrazia e alla politica? Col federalismo: la gente vuole votare, nel Comune come alla Regione come al Parlamento (basterebbe l’uninominale diretto) chi conosce e fa gli interessi suoi e del suo territorio. Non a caso le democrazie che funzionano meglio sono la Germania e gli USA (la Francia è un Paese città-centrico e gli UK una monarchia costituzionale). Negli USA anche la maggior parte dei procuratori generali sono eletti a suffragio universale diretto. Il principio è semplice: mi faccio giudicare da chi conosco (in senso positivo… non del favoritismo ovviamente) e chi comprende il contesto in cui vivo. Per completezza: l’unico partito in Italia che portava avanti la bandiera del federalismo è stata la Lega, ma poi Umberto Bossi ridimensionò le sue rivendicazioni per governare con Silvio Berlusconi (cui quale liberale certo non mancava la sensibilità nella fattispecie), quindi Matteo Salvini ha di fatto lasciato via via scemare l’istanza federalista.

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