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L'ansia da futuro dei giovani di oggi. "Difficile trovare posto nel mondo"

Nell’estate del 2014 circa 30 mila ragazzi e ragazze hanno partecipato alla Route nazionale, appuntamento storico degli scout. In vista di quell’evento, Agesci si è domandata chi sono questi ragazzi e perché, in un mondo che cambia così rapidamente, c’è ancora tanta richiesta di scoutismo? Per questo ha chiesto loro di raccontarsi in forma anonima partendo dal titolo: “Quello che dovete sapere di me”. Sono state raccolte 900 lettere che sono state analizzate dalla redazione della cooperativa di ricerca Codici che ha estratto circa 300 categorie di analisi (’la paura del futuro’, l’impotenza di fronte alla morte’, ad esempio) e ne ha costruito uno strumento di lavoro per Agesci. Centoventi di quelle lettere – quelle che non contenevano riferimenti personali che rendessero riconoscibile l’autore ed erano rappresentative di molte altre – sono diventate un libro, “Quello che dovete sapere di me. La parola ai ragazzi” (Feltrinelli) curato da Stefano Laffi, ricercatore sociale tra i fondatori di Codici. “In quelle lettere, i ragazzi si raccontano per come si sentono, per gli stati d’animo che attraversano più che per quello che fanno, la loro è una soggettività molto esposta - racconta Laffi -. I ragazzi di trent’anni fa avrebbero detto ‘io sono di sinistra’ oppure ‘io faccio il classico’, oggi questo discorso vale meno. E in questi stati d’animo si alternano la determinazione e il desiderio di raggiungere degli obiettivi e la fatica di quest’epoca, la difficoltà di trovare il loro posto nel mondo”. I proventi del lavoro di curatore per il libro saranno devoluti a un progetto di accoglienza per migranti a Lampedusa: “Questa operazione di autoracconto di una generazione viene trasformata in una forma di aiuto verso altri ragazzi che fuggono dai loro Paesi e approdano sulle nostre coste”.

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Il libro nasce da un lavoro di ricerca un po’ anomalo. Come mai avete scelto di utilizzare le lettere, il racconto autobiografico?
Volevamo evitare di andare a scoprire cose che già sappiamo. Esiste già una socio-demografia adolescenziale e ci sono molte interpretazioni allarmate, ‘i ragazzi fanno uso di sostanze’, ‘bevono alcol’, ‘stanno sempre su Internet’, o compassionevoli, ‘non hanno futuro’. In pratica hanno già deciso chi sono i ragazzi. Noi volevamo fare un contro-racconto adolescenziale, scrivere l’autobiografia di una generazione. Abbiamo chiesto loro ‘cosa significa avere 16/18 anni oggi?’. L’invito era scrivere le cose che dobbiamo sapere di loro, le cose urgenti, in un dialogo immaginario con lettori adulti che non conoscono, indicando di sé solo sesso, età e regione di provenienza. Abbiamo fatto un’operazione anomala di ricerca, le lettere erano già state usate ma non così. Noi possiamo costruire il dizionario delle parole dei ragazzi, il flusso narrativo di come si sentono. Certo non è un racconto lineare, ma ricomincia ogni venti righe.

Qual è la parola che ricorre di più in questi racconti?
Futuro. Ed è strano a 16 anni, se devi scegliere cosa dire di te, usare la parola ‘futuro’. È vero che ai ragazzi si chiede sempre ‘cosa vuoi fare da grande?’ ma qui è diverso, è la parola a tornare sempre. È il virus di oggi: i ragazzi hanno addosso la necessità di mettere il futuro nei loro pensieri. E il futuro è angosciante, è incerto, instabile, difficile da configurare. È qualcosa che genera paura, anche perché - e questo è un dato generazionale - i ragazzi sono separati da quel futuro da prove, test, selezioni per la scuola, l’università, il lavoro. E racontano di aver paura di non farcela, di aver paura di non essere all’altezza, di dover corrispondere alle aspettative in un mondo che seleziona tantissimo e che non ha posto per tutti. Contemporaneamente, raccontano la condizione attuale in cui navigano tra gioie, passioni sentimenti. La loro è un’adolescenza raccontata per elenchi, di sogni, desideri, azioni, preoccupazioni, pensieri, stati d’animo.

Questo racconto autobiografico cosa ci dice dei giovani di oggi?
Ci dice che non c’è un’unica cosa in cui i ragazzi si riconoscono, che c’è un modo di stare nel presente che passa da tanti stati d’animo, da tante appartenenze. Ci dicono che c’è una ricchezza di sfide e possibilità esistenziali ma anche molte fatiche. In tanti hanno fatto coming out nella loro lettera: per la sessualità, sul non credere in Dio, sul non corrispondere a qualche attesa sociale. E poi hanno una visione interessante del proprio ruolo, in poche lettere si usa la parola ‘noi’, non c’è una coesione generazionale. Quelle in cui c’è la parola ‘noi’ sono quelle di chi prova a sfidare il mondo e sono lettere belle in cui i ragazzi chiedono un mondo nuovo rispetto a quello che hanno, un mondo in cui ci sia rispetto per la natura, in cui amicizia e relazioni prevalgono su produzione e consumo, in cui la competizione lascia il posto alla collaborazione.

E sul fronte del lavoro quali sono quelli che vorrebbero fare?
Indicano quelli in cui possono essere di aiuto agli altri, parlano di fare volontariato, di fare il medico in zona di guerra, di fare l’insegnante o comunque una professione che ha a che fare con la tutela della natura. Ci sono molto meno i mestieri di carriera. I ragazzi hanno interiorizzato il fatto che si chiede a tutti di impegnarsi per un mondo più sostenibile.

Prima hai parlato di soggettività molto esposta, in questo che ruolo hanno i social media?
I ragazzi hanno fatto tanta palestra nel racconto di sé. I social media li hanno sicuramente invitati a raccontarsi giorno dopo giorno e forse hanno anche alimentato l’elemento narcisistico o il misurarsi rispetto al consenso degli altri, a quanto si piace o no. Questa soggettività sembra anche un’altra cosa. È l’inevitabile strategia cognitiva di una generazione che non si può specchiare negli adulti perché ha un’esperienza di vita completamente diversa. Questi ragazzi parlano più lingue, cambiano città, devono inventarsi nuovi lavori, usano strumenti e mezzi che i loro genitori non conoscono. Quindi gli adulti che hanno di fronte non sono il modello a cui guardare. Quando sei chiamato a inventarti un lavoro, sei un pioniere, devi chiederti cosa sarà di te continuamente, è come se scrivessi un diario quotidiano di te, quello che riesci a fare, le cose che non sai fare, i successi. La soggettività è l’inevitabile effetto della condizione sociale di continua autocostruzione. Non puoi che fare così, sei in un flusso di continua verifica.

Ma se gli adulti che hanno di fronte non sono un modello, qual è il ruolo della famiglia?
Nelle lettere la famiglia c’è, è raccontata, evocata. C’è molto meno la scuola, se non come orizzonte incerto. Teniamo conto che questi ragazzi sono a ridosso della maturità. La famiglia c’è ed è un legame tendenzialmente forte, poi c’è la conflittualità con fratelli e sorelle, ma è normale. E c’è chi racconta di genitori separati o di situazioni difficili. Ma la famiglia è il luogo affettivo, rassicurante, non è il luogo del conflitto. E c’è anche la volontà di costruire una famiglia loro. Perché se si rende instabile qualcosa, la famiglia, il lavoro, questa diventa desiderabile.

Hanno voglia di trovare lavoro?
Certo ma hanno anche paura di non farcela. Ricordiamoci che hanno tra i 16 e i 20 anni quindi sono lontani dall’ingresso nel mondo del lavoro. Per loro è più facile proiettare il desiderio che scontrarsi con un mercato del lavoro chiuso. Il lavoro è un orizzonte su cui investire. La rottura verso il lavoro come schiavitù o la famiglia come prevaricazione, come accadeva negli anni Settanta, non c’è.

Da Redattore Sociale

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"quello che dovete sapere di me"





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