Tortura, la critica del Sap: "Uno scempio legislativo" - Affaritaliani.it

Cronache

Tortura, la critica del Sap: "Uno scempio legislativo"

REATO DI TORTURA – SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL PERCHE’ E’ UN REATO IDEOLOGICO

DISEGNO DI LEGGE (Atto Senato n. 10-362-388-395-849-874-B)

Art. 1.

(Introduzione degli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, concernenti i reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura)

 

  1. Nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III, del codice penale, dopo l'articolo 613 sono aggiunti i seguenti:

«Art. «Art. 613-bis. – (Tortura). – Chiunque, con violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell'appartenenza etnica, dell'orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

 

Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni.

 

Ai fini dell'applicazione del primo e del secondo comma, la sofferenza deve essere ulteriore rispetto a quella che deriva dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Se dal fatto deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate. Se dal fatto deriva una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e della metà in caso di lesione personale gravissima.

Se dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo.

Art. 613-ter. - (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). -- Fuori dei casi previsti dall'articolo 414, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l'istigazione non è accolta ovvero se l'istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da uno a sei anni».

Art. 2.

(Modifica all'articolo 191 del codice di procedura penale)

  1. All'articolo 191 del codice di procedura penale, dopo il comma 2 è aggiunto il seguente:

 

«2-bis. Le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale».

 

Art. 3.

(Modifica  all'articolo 157 del codice penale)

  1. Al sesto comma dell'articolo 157 del codice penale sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, nonché per il reato di cui all'articolo 613-bis».

 

Art. 4.

(Modifica all'articolo 19 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286)

 

  1. Il comma 1 dell’articolo 19 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286,è sostituito dal seguente:

«1. In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali o oggetto di tortura, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione o dalla tortura ovvero da violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani».

 

Art. 5.

(Esclusione dell'immunità dalla giurisdizione. Estradizione nei casi di tortura)

 

  1. Nel rispetto del diritto internazionale, non è riconosciuta l’immunità dalla giurisdizione agli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale.

  2. Nel rispetto del diritto interno e dei trattati internazionali, nei casi di cui al comma 1, lo straniero è estradato verso lo Stato richiedente nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o lo Stato individuato ai sensi dello statuto del medesimo tribunale.

 

Art. 6.

(Invarianza degli oneri)

  1. Dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato.

Art. 7.

(Entrata in vigore)

1. La presente legge entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

 

SCHEDA TECNICA

La proposta di legge C. 2168, già approvata dal Senato, introduce nel codice penale italiano il reato di tortura, espressamente vietata in alcuni atti internazionali. L'Assemblea della Camera, il 23 marzo 2015, ha avviato l'esame della proposta di legge con le modifiche apportate dalla Commissione Giustizia e l’ha approvata nella giornata di ieri 9 aprile (le modifiche apportate dalla Camera sono indicate in grassetto). L’iter legislativo prevede ora la trasmissione al Senato per l’approvazione (S. 10 e connessi).

Il provvedimento in esame si compone di sette articoli, attraverso i quali:

  • è inserita nel codice penale la fattispecie di tortura (art. 613-bis c.p.), che può essere commessa da chiunque (reato comune);

  • è prevista un'aggravante quando i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale;

  • è inserito nel codice penale il delitto di istigazione a commettere la tortura, reato proprio del pubblico ufficiale;

  • sono raddoppiati i termini di prescrizione per il delitto di tortura;

  • è vietato espellere o respingere gli immigrati quando si supponga che, nei Paesi di provenienza, siano sottoposti a tortura;

  • è esclusa l'immunità diplomatica dei cittadini stranieri indagati o condannati nei loro Paesi di origine per il delitto di tortura.

Il reato di tortura

La proposta di legge introduce nel titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale), del codice penale i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter).

In particolare, l'articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenza o minaccia, ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche (reato di evento),

  • a causa dell'appartenenza etnica, dell'orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose o

  • al fine di

- ottenere da essa, o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o

- infliggere una punizione o

- vincere una resistenza.

La tortura è dunque configurata come un reato comune (e non come un reato proprio del pubblico ufficiale), caratterizzato dal dolo specifico (intenzionalmente cagiona, al fine di) e dalla descrizione delle modalità della condotta (violenza o minaccia o in violazione degli obblighi di protezione, cura o assistenza) che produce un evento (acute sofferenze fisiche o psichiche).

Sono poi previste specifiche circostanze aggravanti del reato di tortura:

  • l'aggravante soggettiva speciale, costituita dalla qualifica di pubblico ufficiale odi incaricato di pubblico servizio dell'autore del reato. Per potere applicare l'aggravante - che comporta la reclusione da 5 a 15 anni - occorre che l'autore del reato abbia agito con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. La sofferenza patita dalla persona offesa deve essere ulteriore rispetto a quella insita nell'esecuzione di una legittima misura privativa della libertà personale o limitativa di diritti;

  • l'aggravante ad effetto comune (aumento fino a 1/3 della pena), consistente nell'avere causato lesioni personali;

  • l'aggravante ad effetto speciale (aumento di 1/3 della pena), consistente nell'aver causato lesioni personali gravi;

  • l'aggravante ad effetto speciale (aumento della metà della pena), consistente nell'avere causato lesioni personali gravissime;

  • l'aggravante ad effetto speciale (30 anni di reclusione), derivante dall'avere provocato la morte della persona offesa, quale conseguenza non voluta del reato di tortura. In questo caso, dunque, la pena è più severa, per il maggior disvalore sociale, rispetto a quella prevista per l'omicidio preterintenzionale (reclusione da 10 a 18 anni) cui la fattispecie potrebbe ricondursi (anche qui il soggetto commette un reato diverso da quello previsto al momento di agire);

  • l'aggravante ad efficacia speciale (ergastolo), derivante dall'avere volontariamente provocato la morte della persona offesa.

 

Il reato di istigazione a commettere tortura

Il nuovo articolo 613-ter c.p. punisce l'istigazione a commettere tortura, commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio (reato proprio), sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. La pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni si applica a prescindere dalla effettiva commissione del reato di tortura, per la sola condotta di istigazione. E' peraltro specificato che questo reato si applica al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 414 c.p. (istigazione a delinquere). L'art. 414 c.p. riguarda chiunque "pubblicamente" istiga a commettere uno o più reati e prevede la sanzione - quando riguarda la commissione di delitti - della reclusione da uno a cinque anni. In virtù della clausola di salvaguardia in favore dell'art. 414 c.p., la nuova fattispecie di istigazione a commettere tortura dovrebbe pertanto trovare applicazione solo nel caso in cui non abbia luogo "pubblicamente". Si rammenta che agli effetti della legge penale il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata (art. 266, quarto comma, c.p.). Occorre valutare in quali ipotesi possa effettivamente perfezionarsi la nuova fattispecie prevista dall'art. 613-ter c.p.

 

CRITICITA’

 

PRIMO PUNTO CRITICO: Il richiamo alla condotta di chi cagiona «acute sofferenze psichiche» sostanzia una aperta  violazione del principio di tassatività delle norme penali incriminatrici posto alla base dello Stato di diritto (nel senso che i cittadini debbono sapere esattamente ciò che è vietato e ciò che è consentito). C'è da domandarsi, a questo punto, come si misura l'acuta sofferenza psichica? Come può essere provata in un processo penale l'acuta sofferenza psichica? Come l'acuta sofferenza psichica può tramutarsi in una sanzione criminale? Come una acuta sofferenza psichica può portare il giudice alla determinazione della sanzione legittima? Qual è, in sintesi, un’azione idonea a cagionare un’acuta sofferenza psichica?

Ricordiamo, a tal proposito, che nel lontano 1981 la Corte costituzionale (sent. 96/81) ha dichiarato l’incostituzionalità del reato di plagio (603 c.p.), a seguito della quale espunto dal nostro ordinamento, perché ritenuto carente sotto il profilo della determinatezza e della tassatività e, pertanto, in contrasto con l’art. 25 della Costituzione.

Si consideri, inoltre, che la “mancata stretta determinazione legale” della fattispecie incriminatrice del reato di tortura impedisce persino la possibilità di difendersi nel processo oltreché, nei casi di responsabilità, l’incapacità degli organi dell’accusa di indicare le fonti di prova della responsabilità, costituendo una cd. prova diabolica.

La formulazione letterale dell’art. 603 c.p. prevedeva, difatti, al pari di quelle in esame, un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che avrebbero potuto concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe stato oggettivamente qualificabile questo stato. Allo stesso modo, come sarebbero dimostrabili, accertabili ed oggettivamente individuabili queste sofferenze psichiche, considerato che risiedono nell’intimo sentire? Insomma, è chiara l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione.

Si tratterebbe di una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo essere applicata a qualsiasi fatto che implichi una sofferenza psichica di un essere umano causata da un altro essere umano e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l’intensità. Pertanto, vi è un contrasto insanabile con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 Cost.

Dal citato principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. discende, altresì, il corollario dell’irretroattività della legge penale nel tempo. Si tratta di un principio ("nulla pena sine lege") accolto dall’art. 7 della CEDU e, a tal proposito, è di questi giorni la notizia che Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito, difatti,  la Corte europea dei diritti umani che ha stabilito che il Dirigente della Polizia di Stato non avrebbe dovuto essere condannato perché "il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un'evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all'epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato". I giudici di Strasburgo, a differenza di quanto fatto da quelli italiani, gli hanno dato ragione, affermando che i tribunali nazionali, nel condannare Contrada, non hanno rispettato i principi di "non retroattività e di prevedibilità della legge penale", con ciò violando i principi costituzionali sui quali si fonda il nostro processo penale. Dalla attuale formulazione della norma arriviamo persino, anche se in astratto, all’aberrazione di dover qualificare come tortura, anche se nei confronti di un soggetto particolarmente “sensibile”, uno sguardo duro, di censura, ombroso oppure un tono della voce particolarmente autorevole e/o autoritario.

 

SECONDO PUNTO CRITICO: Si rileva una grossa incongruenza tra il delitto di tortura strutturato come reato comune e l’istigazione a commettere tortura, costruita come fattispecie autonoma e inquadrabile nei reati propri. Ciò significa che solo la condotta istigatoria del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio può essere sussumibile nel neo art. 613-ter c.p.

La stessa condotta realizzata dal quisque de populo non costituisce reato. Perché? E’ forse caduta la “scusa” della “necessità di adeguarsi alla legislazione europea” di cui tanto si sono riempiti la bocca gli esponenti di una certa e conosciuta corrente politica-ideologica nascostisi dietro il paravento della tortura come reato comune? Per quale motivo – qualcuno ce lo spieghi – l’istigazione a commettere tortura, che dovrebbe essere la proiezione in chiave sobillatoria e provocatoria del reato di tortura (che è reato comune!), può essere commessa solo dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) e non anche da chi questa qualifica non la riveste? Si tratta di un conflitto tra norme difficilmente comprensibile, a meno che non si voglia “pensar male”… Ad esempio, la richiesta vana di un magistrato rivolta ad un suo collega, o alla polizia giudiziaria, di far presente ad un mafioso che ha sciolto intere famiglie nell’acido, bambini compresi, che se non collabora “se la vedrà brutta”, sarebbe riconducibile al reato di istigazione alla tortura!

 

TERZO PUNTO CRITICO: l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura è prevista quale autonoma fattispecie di reato, per di più proprio, come abbiamo visto al punto precedente.

Ora, il nostro codice penale conosce un’istigazione (non accolta) punibile e una non punibile: l’istigazione non accolta (o accolta, ma il reato non è stato commesso) non punibile è quella disciplinata dall'articolo 115 c.p. (“Accordo per commettere un reato. Istigazione”).

Si tratta di una norma sussidiaria, che trova – pertanto - applicazione ”salvo che la legge disponga altrimenti”. Detto articolo comporta l'irrogazione di una sanzione per concorso quando l'istigazione sia accolta perché, quando non lo è, si applica una misura di sicurezza, mentre qui (613-ter c.p.) il mancato accoglimento dell’istigazione comporta comunque la pena della reclusione!

Allora, rebus sic stantibus, qui non si è avuto il coraggio di dire che si tratta di un reato proprio delle forze di polizia: si deve avere il coraggio di ammettere che la volontà politica è quella di punire solo i comportamenti delle forze di polizia!

Questa disposizione (613-ter) andava inserita nelle norme sull'abuso, come l'arresto illegale, non nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale; ci sono delle fattispecie specifiche. Ebbene, con questa fattispecie l'istigatore viene punito anche se il reato non viene commesso, per il solo fatto della condotta istigatoria, con buona pace del principio di tassatività, di stretta legalità e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge!

Quindi, alle forze di polizia si applica un trattamento sanzionatorio peggiore, deteriore rispetto ai criminali che si accordano per commettere un reato a cui si applica l'articolo 115 del codice penale.

Esiste, come detto, anche un’istigazione non accolta punibile, al pari di questa in esame, ma si tratta di fattispecie che sembrano rispondere ad un disegno unitario di politica criminale, create per tutelare beni giuridici di maggior rilievo assegnando loro una forma di tutela più avanzata del tentativo e che con esso non possa confondersi. Così, ad esempio, le clausole “ per ciò solo” e “ per il solo fatto”, nell’istigazione dei militari a disobbedire le leggi ( art. 266 c.p. ), nella istigazione pubblica prevista ex art 303 c.p., nell’istigazione a delinquere (art 414 c.p.) garantiscono l’operatività delle singole previsioni per il semplice fatto dell’istigazione. Si tratta, tuttavia, di delitti che tutelano – come detto – INTERESSI NAZIONALI DI PARTICOLARE IMPORTANZA, quali la personalità, anche interna, dello Stato e l’ordine pubblico.

Dunque, con l’art. 613-ter, sarebbe la prima volta che la condotta istigatoria viene punita di per sé in relazione ad un delitto contro la libertà morale, e dunque, volto alla tutela di beni giuridici non di preminente interesse nazionale. Evidentemente, il partito dell’anti-polizia può anche questo!

Oltretutto, si vuole qui evidenziare come sia l’art. 266 che il 303 e il 414 c.p. (ipotesi codicistiche di istigazioni non accolte punibili) richiedono che l’istigazione non accolta debba avvenire (per configurare reato) secondo precise modalità, vale a dire “PUBBLICAMENTE”, e cioè col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata.

In tal modo, il legislatore richiede un elemento ulteriore (modalità pubblica) per la sussumibilità della condotta nella fattispecie penale, restringendo evidentemente il campo d’applicazione della relativa norma penale incriminatrice.

Nell’art. 613-ter, invece, non v’è la presenza di tale avverbio, sicchè l’operatività di tale fattispecie appare estremamente ampia e incontrollabile!

Volendo compiere un’analisi della politica criminale adottata dalla classe dirigente politica odierna e traducendo le azioni in parole, ciò equivale a dire che nel caso del 613-ter la condotta istigatoria propria del p.u. (o dell’incaricato di pubblico servizio) nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio sarebbe talmente grave da non necessitare che si compia in modo pubblico, non essendo stata individuata in quali ipotesi possa effettivamente perfezionarsi il reato.

In altri termini, anche fosse solo per questo, il legislatore dimostra di ritenere più grave la fattispecie istigatoria di cui al 613-ter c.p. rispetto ai citati delitti contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, sebbene questi ultimi siano notoriamente all’apice della scala gerarchica dei beni giuridici tratteggiata dalla Carta costituzionale e tutelati dal legislatore!

Il risultato è aberrante: se in un Ufficio di polizia un fermato urla tutto il tempo e un operatore invita un  collega  a “Fargli un urlo per vedere se smette”, il primo diventa sanzionabile per tortura anche se il secondo decide di non intervenire. Al contrario, se si invita un amico ad abusare sessualmente di una bambina, non c’è istigazione alla pedofilia se il fatto non viene consumato.

 

CONCLUSIONI

 

Riteniamo si tratti di un reato ideologico, che il solito e ben conosciuto partito dell’antipolizia – cavalcando la recente ondata provocata dalla Corte europea dei diritti umani che si è espressa in merito ai fatti del G8 di Genova – sta portando a casa nascondendolo dietro la necessità di adeguare la nostra legislazione alla normativa europea.

E’ ovvio che gli abusi vanno puniti, chiunque li compia, ma qui sta accadendo ben altro.

Guardiamo alla sua genesi culturale e legislativa: è nato per colpire chi ha una divisa e per chi esercita una funzione pubblica. Nella prima versione discussa in Parlamento era un reato che potevano commettere solo i pubblici ufficiali. E’ palese che al proponente non interessava sanzionare il comportamento di un mascalzone che entrava in una casa e sequestrava due nonni e strappava le unghie al nipotino per farsi aprire la cassaforte. Parimenti, al proponente neppure interessava sanzionare il comportamento di chi sequestrava delle minorenni in paesi sottosviluppati, le portava in Italia e le sottoponeva a tortura per costringerle alla prostituzione, mentre - per contro - gli interessava punire il poliziotto intervenuto in un sequestro di un bimbo a scopo di estorsione che era costretto, per cercare di individuare il covo e liberare l’ostaggio, a minacciare il sequestratore (senza sfiorarlo) che gli avrebbe spaccato la faccia! Con la nuova norma, cioè, un poliziotto commette tortura se gli dice: “Dimmi dov’è il covo o ti tiro un pugno in testa!”. Diventa un torturatore anche un magistrato che dice a un mafioso: “O collabori o ti faccio passare un brutto quarto d’ora”.

Peraltro le condotte delineate dall’emanando reato di tortura sono già contemplate dal nostro ordinamento: la tesi che in Italia la tortura non sia punita è non solo infondata, ma addirittura capace di ingenerare nell'opinione pubblica (e non certo nel mondo dei giuristi) un'idea che non ha davvero nessun tipo di fondamento.

Per la prima volta in Occidente questo tipo di reati fu punito dal Codice penale di Napoleone del 1810, ma senza dover arrivare così indietro nei tempi, ricordiamo che il principio cardine del habeas corpus nel nostro Paese e l'art. 13 della nostra Costituzione stabiliscono - molto prima della Convenzione di New York individuata da tutti quale ragione giustificatrice dell’introduzione di tale delitto - quali sono i limiti privativi della libertà personale dei cittadini, indicando un percorso per cui tutte le violenze fisiche o morali sono punite: quindi, tutte le misure restrittive della libertà personale importano il divieto di questo tipo di violenze oggetto delle proposte di legge in parola. Anche il codice Rocco del 1931 - ma prima ancora il codice Zanardelli - si occupava di queste fattispecie.

Addirittura, in Parlamento si è sostenuta la tesi secondo la quale alcuni abusi compiuti dalle forze dell'ordine non trovino sanzione. Non è così e i giornali e la cronaca lo testimoniano: la magistratura penale italiana ha punito molto severamente questi fatti perché essi integrano fattispecie che prevedono sanzioni molto pesanti: sequestro di persona, lesioni, percosse, minacce e, inoltre, l’art. 61 c.p. – e, in più in generale, il nostro impianto codicistico – prevede delle aggravanti quando queste condotte sono compiute dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.

Il nostro è un codice che punisce molto severamente queste fattispecie di reato e l’abuso di autorità. Quindi, non c'è alcuna lacuna normativa  da colmare.

Anzi, a ben vedere, la Convenzione di New York ci dice esattamente il contrario: il comma 2 dell'articolo 1 stabilisce che «tale articolo» - quello che indica i comportamenti penalmente rilevanti (ndr) - «non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata».

Allora, non vi è dubbio: chi può negare che le violenze, le sevizie, fisiche o psichiche, nei riguardi o di una persona ristretta legalmente o privata arbitrariamente della sua libertà personale non siano punite? Chi può sostenere questa tesi?

Siamo esterrefatti, per non dire altro, di fronte alle intenzioni del legislatore, che forse sono quelle di dotare i facinorosi, gli estremisti, gli anarchici e i tanti altri che ritroviamo in strada a manifestare non pacificamente e non senz’armi, di un altro strumento di lesione potentissimo dei tutori della sicurezza: basterà denunciare di aver subito “una sofferenza psichica”(?), magari in un interrogatorio, per poter accusare gli uomini e le donne in divisa del reato di tortura.  

Viene da chiedersi, a questo punto, da che parte stia la classe politica di questo Paese, perché, se così è, non ci rimane altra strada che arrenderci di fronte alla chiara volontà di stendere al tappeto definitivamente l’Istituzione della Polizia di Stato e, più in generale, le forze dell’ordine, che attualmente sono in ginocchio per tutte le problematiche che le attanagliano.

Non solo. Con l’introduzione di questi  reati si colpisce chiunque rivesta e/o sviluppi una funzione pubblica: è lo Stato che si auto-inferte un fendente mortale alla tutela e alla stessa sopravvivenza dei valori democratici di cui è portatore. Come si potrà pretendere, poi, che coloro i quali siedono dalla sponda sbagliata del fiume della LEGALITA’ possano essere efficacemente osteggiati? Come si potrà biasimare un operatore di polizia o un magistrato che, intimorito dalle eventuali ripercussioni che un suo monito particolarmente autorevole possa avere sul mafioso di turno, opti per approccio certamente più soft ma evidentemente meno fruttuoso sul piano dei risultati investigativi?

E’ bene che questi interrogativi vengano posti al legislatore e alle più alte cariche dello Stato, affinché riflettano attentamente su quanto stanno facendo e sulle conseguenze estremamente gravi del loro sconsiderato operato legislativo.

In conclusione, si tratta di fattispecie incriminatrici incostituzionali, lesive del principio dello Stato di diritto, gravemente lesive dei principi fondamentali che si vogliono perseguire. Si vogliono punire condotte già punite con il reato di violenza privata. Si vogliono punire con il reato di tortura condotte di semplice bullismo. Il richiamo è a chi non può chiedere aiuto. Immaginate un gruppo di ragazzi che si scontra con altri ragazzi: se uno di questi non può chiedere aiuto e subisce una sofferenza psichica si configura il reato di tortura. Non scherziamo!

Questa è una legge manifesto e prettamente ideologica che va ricondotta al principio di ragionevolezza.

Si dica esattamente qual è l’obiettivo: punire eventuali abusi di potere da parte delle forze di polizia nei riguardi delle persone arrestate? Allora si individui un comma aggiuntivo alle disposizioni che definiscono le fattispecie esistenti. Si vuole punire la tortura delle associazioni mafiose nei riguardi di altri criminali? Si individui il comportamento. Ma queste fattispecie sono lesive di principi fondamentali del nostro ordinamento.

Né si provi a giustificare – come è stato fatto – questo scempio legislativo con la necessità di evitare che i reati si prescrivano come è avvenuto per taluni fatti del G8: se davvero queste fossero state le intenzioni si sarebbe intervenuti sul diritto processuale penale allungando i tempi di prescrizione per talune fattispecie (lesioni),  e non sul diritto penale sostanziale come è invece stato fatto!

Le forze di polizia sono maltrattate e attaccate da tutti, sono abbandonate a loro stesse da uno Stato latitante. Vogliamo solo ricordare che di questo stesso Stato facciamo parte quale sua longa manus a difesa dei diritti e dei principi sociali fondanti la Repubblica Italiana. Non meritiamo una legislazione penale indeterminata e aperta agli abusi come questa, la quale – ove ammessa – ci porrebbe ogni giorno di fronte alla possibilità di essere incriminati e condannati non si sa per quale motivo. 

Si punirebbero condotte esclusivamente perché legate a logiche ideologiche e ciò rappresenterebbe la vittoria dei disfattisti e del partito degli ACAB che, a questo punto, dobbiamo credere piuttosto nutrito e dominante nel nostro Paese.

Non dimentichiamo, infine, che tale fattispecie novellata è applicabile, in prima analisi, ai magistrati del PM impegnati nei processi di criminalità organizzata, il che contribuirà più che verosimilmente a lenire qualsiasi slancio di determinazione positiva nella direzione del contrasto ai fenomeni criminali in genere.

Un’ultima riflessione. Partendo dai tempi di Gabriele Cagliari fino a giungere ai giorni nostri, decine di migliaia di persone sottoposte a misure cautelari sono state poi prosciolte con formula piena.

Domanda: con l’approvazione del ddl tortura anche queste potranno rivendicare di aver patito “acute sofferenze psichiche” finalizzate ad ottenere una confessione che non poteva essere?