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Culture
Al Maschio Angioino di Napoli oli, bronzi e disegni di Ligabue

Attraverso oltre ottanta opere, tra cui cinquantadue oli, sette sculture in bronzo e disegni, Napoli ospita un excursus storico e critico sull’attualità dell’opera di Antonio Ligabue che, seppure incentrata su pochi temi ripetuti e sempre rinnovati, rappresenta ancora oggi una delle punte più interessanti dell’arte del Novecento. La mostra (Cappella Palatina del Maschio Angioino, da oggi al 28 gennaio 2018), promossa dal Comune di Napoli in collaborazione con la Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e  l’organizzazione generale di C.O.R Creare Organizzare Realizzare, è curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri, massimi esperti dell’opera dell’artista. “L’esposizione offre l’irripetibile occasione per conoscere l’opera di un grande Maestro ed è destinata a lasciare un preciso segno nel ricco panorama delle manifestazioni a Napoli dell’autunno 2017 in quanto -dichiara Alessandro Nicosia, presidente di C.O.R- le scelte e l’orientamento culturale di Ligabue rivelano ancora oggi un’attenzione speciale per la vita e per la verità dei sentimenti. Dipingere qualcosa significa possederla e Ligabue sembra dipingere per possedere, lui che era privo di tutto” e che si riscattava attraverso la pittura. “Per la sua storia -dice Parmiggiani- potremmo definirlo un esiliato: la sua unica patria è stata l’arte, che gli ha permesso di oltrepassare i suoi limiti. Ligabue sentiva un’oscura vicinanza agli animali, come se tra lui e loro potesse esserci una lingua comune, attraverso la quale riuscire a intendersi”. Ligabue esordisce come pittore primitivo, ingenuo, qualcuno lo definisce naif, spiega Negri. “Credo sia un errore: basta dare uno sguardo all’evoluzione della sua opera, che da una fase iniziale un po’ incerta man mano cresce, fino a diventare quello che oggi possiamo ammirare qui. Ligabue non è un artista  impreparato, o incolto, come sino a pochi anni fa si voleva far credere, ma un autentico pittore autodidatta, dotato di abilissimo talento creativo, da inquadrare tra quei pittori che, a un certo punto del loro excursus artistico, sentono il bisogno di guardarsi dentro al fine di dare a ogni immagine dipinta un profondo significato di sofferenza interiore”. 
La mostra
La rassegna monografica mette in luce i diversi esiti dell’opera dell’artista nel corso della sua attività dagli anni Venti al 1962, declinati nelle diverse tecniche attraverso le quali l’artista si esprime: gli animali esotici e feroci, impegnati in una perenne contesa per la loro sopravvivenza, ma anche quelli vicini all’uomo nella vita domestica e nel lavoro dei campi. Ligabue studiava accuratamente la loro anatomia che rappresentava e le posture tipiche assunte nelle fasi della caccia o del lavoro, desunte dall’osservazione diretta e da varie fonti iconografiche (le figurine Liebig, “La vita degli animali” di Brehm, la frequentazione dei Musei Civici di Reggio Emilia); reinventa il semplice dato di partenza attraverso una pittura in cui si fondono visionarietà espressiva, sia nelle forme che nel colore, e il ricorso a elementi puramente decorativi: i mantelli degli animali, la vegetazione, le carte da parati negli interni, i tessuti delle giacche. In molti dei suoi paesaggi padani irrompono, sullo sfondo, raffigurazioni assolutamente reali dei castelli e delle case della natia Svizzera, immagini di quelle radici che tenacemente conservava nella sua memoria. Gli straordinari autoritratti, infine, rappresentano un’orgogliosa dichiarazione del suo valore di artista e della sua identità di persona spesso dileggiata e irrisa. Per questo, affermano i curatori della mostra, si può affermare che Ligabue visse come “straniero in terra straniera”, come si evince dall’impietosa descrizione dei tratti del suo volto, segnati da sentimenti di solitudine e disagio esistenziale.

Eduardo Cagnazzi

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