Manfredi racconta com’era lo "Splendore a Shangai"
Il nuovo romanzo di Gianfranco Manfredi ci trasporta nella Parigi d’Oriente degli anni Venti del secolo scorso
di Raffaello Carabini
Joy, gin & jazz ovvero l’equivalente anni Venti e molto depurato della triade che cinquant’anni dopo diventerà un “classico”: sex, drugs & rock‘n’roll. Vissuto, non ci si crederebbe in tempi di “invasione gialla”, dagli europei nella capitale economica del fu Celeste Impero, Shangai, da un giovane pianista italiano chiamato da tutti Doremi.
È lui il protagonista di Splendore a Shangai (Skira, pgg. 448, in brossura, euro 25), il nuovo romanzo di Gianfranco Manfredi, l’ex-cantautore e autore di canzoni brillante e profondo convertitosi alla scrittura, sia per il cinema, la tv e i fumetti, che di romanzi interessanti come Magia Rossa (debutto letterario nel 1983), Ultimi vampiri (1987), Il piccolo diavolo nero (2001), La freccia verde (2013) e alcuni altri.
Il piacevole racconto, rutilante di azioni, informazioni, descrizioni, sentimenti contrastanti, desideri e sogni delusi, ci immerge nell’ambiente multietnico e multiculturale delle cosiddette “concessioni straniere” di Shangai (dove lo stato cinese non amministrò fino al 1941), reduce dal fervore di una crescita socioeconomica accelerata e prossimo ai pericoli di una guerra civile combattuta dai signorotti di estrazione feudale, dalle tong – le “corporazioni” criminali – e dai nuovi “signori”, nazionalisti come Chiang Kai-shek e comunisti come Zou Enlai, poi fedele braccio destro di Mao Tsedong (ai tempi del “libretto rosso” che infiammò gli animi dei ragazzi del ‘68 si scrivevano rispettivamente Ciù En-lai e Mao Tse-tung).
La politica di colonizzazione aveva portato alle costruzioni magnifiche, in stile liberty e decò, tuttora ammirabili lungo il Bund, il lungomare che si affaccia sul Pudong, il quartiere-isola su cui sorgono – novella Manhattan – i maggiori grattacieli, alcuni di altezze superiori ai 400 metri, della città contemporanea. E aveva attirato decine di migliaia di immigrati europei e giapponesi in un’area cittadina moderna ed efficiente, ricca e vitale. Lì i divertimenti si succedevano sempre innovativi e sempre accompagnati dalle musiche del momento, tradotte o meno in salsa yellow.
In questo contesto il ventenne Doremi, ingaggiato casualmente da un nobile in fuga dal fascismo, vive un’avventura di crescita emozionante e creativa, che lo porta a un salto culturale enorme, dal dietro lo schermo del cinema di Senigallia – la cittadina dove è nato anche l’autore del romanzo -, da dove improvvisava sui fotogrammi dei film muti, alla Parigi d’Oriente, sui cui boulevard si potevano incontrare George Bernard Shaw e Charlie Chaplin, Albert Einstein e Douglas Fairbanks, oltre a mille musicisti di ogni dove (segnaliamo l’attenzione di Manfredi per l’organizzazione degli eventi teatral-musicali e per personaggi autentici come Valaida Snow, trombettista, cantante e ballerina, stella del vaudeville) e di ogni genere.
Il tutto per seguire l’idea di una grande rappresentazione dell’allora appena composta dal morente Giacomo Puccini Turandot proprio con il braccio di mare di fronte al Bund come scenografia, i cantanti sulle decoratissime imbarcazioni cinesi e i fuochi d’artificio conclusivi, perché certamente, come chiosa Manfredi “l’amore per la musica può fare da argine alla violenza”.
