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Direttiva sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie

Redazione MarketWalll

Entro dicembre 2016, gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno recepire la nuova Direttiva sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie (2014/95/UE), che mira ad elevare la trasparenza e l’accountability delle grandi imprese di interesse pubblico con oltre 500 dipendenti su temi non-finanziari tra i quali: ambiente, politiche sociali e legate ai dipendenti, diritti umani e anti-corruzione. A questi, si aggiungono le politiche sulla diversità applicate alla composizione degli organi di governo e controllo e altre eventuali informazioni aggiuntive che si ritenga opportuno rendicontare. Per ciascuna area informativa, la relazione sulla gestione dovrà fornire una rappresentazione degli obiettivi delle politiche, delle modalità di attuazione e dei risultati realizzati nel periodo di riferimento.

 

Nedcommunity è l’associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti, componenti degli organi di governo e controllo delle imprese. Nedcommunity è membro di ecoDa, European Confederation of Directors’ Associations. Gli associati di Nedcommunity sono circa 450, dei quali almeno due terzi amministratori o sindaci di società quotate o di grandi dimensione e un terzo esperti di corporate governance.

 

Alla conferenza su questo tema organizzata a Bruxelles il 15 marzo scorso da ECIIA (European confederation of institutes of internal auditing), ecoDa (European confederation of directors’ association) e ACCA (Association of Chartered Certified Accountants), era presente come membro di ecoDa anche Nedcommunity.

 

Chiediamo a Paola Schwizer – Presidente di Nedcommunity – che nel corso della conferenza ha messo in luce l’impatto della Direttiva in materia di rendicontazione delle informazioni non finanziarie sull’attività dei consigli di amministrazione, quali sono i prossimi passi:

 

“In vista della pubblicazione, nella relazione sulla gestione, delle informazioni non finanziarie richieste dalla Direttiva, il consiglio dovrà definire, condividere e approvare una serie di elementi qualificanti il modello di business della società in una prospettiva di lungo termine e il relativo impatto sul piano socio-ambientale e sugli stakeholder interni ed esterni. Ciò implicherà una più attenta e pervasiva valutazione dei rischi e delle connesse modalità di gestione e la predisposizione di un set di indicatori non-finanziari in grado di rappresentare in modo più ampio le performance aziendali”.

 

Si configura un’evoluzione della corporate governance verso un crescente presidio della sostenibilità dell’attività economica nel lungo periodo e quindi di un nuovo sistema di creazione di valore, che tenga in debita considerazione i costi e i benefici generati dall’azienda per il territorio, per i dipendenti, per i clienti e, più in generale, per la collettività. Ma i principali codici di autodisciplina sottolineano da tempo il ruolo fondamentale del consiglio di amministrazione nella promozione di indirizzi strategici di lungo termine, che devono ora essere resi più trasparenti nei confronti del mercato.

 

I board possono guidare il cambiamento del modello di impresa e farsi parte attiva nel promuovere una value proposition di lungo periodo?

 

“Sì, ma a condizione che cambino anch’essi, almeno su tre fronti” prosegue Paola Schwizer “Il primo riguarda la composizione dei consigli, che, come recita lo stesso Considerando 18 della Direttiva, deve essere sempre più improntata a una diversità di competenze e di punti di vista degli amministratori, fonte imprescindibile di confronto critico e di apertura all’innovazione.  

 

Il secondo concerne le competenze dei consiglieri, che dovranno comprendere esperienze in materia di crises management, turnaround, nuovi mercati, digitale e media, IT, cyber security, da considerare fondamentali per cogliere la portata dei cambiamenti in atto. Ma anche la personalità dei consiglieri può fare la differenza: disponibilità al cambiamento, visione strategica, capacità di integrated thinking, leadership, apertura mentale, un ego controllabile e una buona capacità di ascolto favoriscono il dialogo, la collaborazione e la gestione trasparente dei conflitti. Tali nuovi profili dovrebbero facilitare il terzo, e forse più importante, fronte di cambiamento, che è quello dei modelli e dei processi di governance e quindi di lavoro del consiglio”.

 

Ci potrebbe fare alcuni esempi?

 

“Organizzare riunioni al di fuori delle sedute consiliari per discutere delle opportunità e delle sfide emergenti nel contesto ambientale, senza eccessivi vincoli di tempo o di agenda; incontrare esperti esterni per raccogliere nuove prospettive di scenario; analizzare casi di successo e insuccesso in materia di ESG; ricercare le connessioni tra fenomeni e in particolare tra strategia, rischi, governance, politiche aziendali e risultati passati e futuri; definire obiettivi e indicatori di performance socio-ambientale senza fermarsi di fronte a difficoltà di misurazione di fenomeni qualitativi; sviluppare processi efficaci – oltre le mere esigenze di compliance – in materia di autovalutazione del board, di induction, di successione” conclude Paola Schwizer “Tutto ciò dovrebbe favorire la capacità degli organi di governance di guardare oltre i meri risultati finanziari, ponendosi le domande giuste e ragionando in modo aperto e creativo”.

 

Secondo quanto già stabilito nel 2014 le imprese saranno obbligate a pubblicare tali informazioni se avranno i tre seguenti criteri: 1) Essere una grande impresa ovvero avere un bilancio di almeno 20.000.000 o un fatturato netto di 40.000.000. 2) Avere più di 500 dipendenti. 3) Essere un ente di interesse pubblico. Queste sono in particolare le aziende quotate, gli istituti di credito, le assicurazioni o altre imprese considerate tali dalla legislazione nazionale in ragione della natura della loro attività, della loro dimensione o della forma societaria. Si stima che la nuova direttiva riguarderà circa 6.000 imprese in Europa e circa 300-400 realtà a livello italiano.

 

L’approccio confermato è quello del “comply or explain“, per cui l’impresa che non ha una politica specifica su una delle aree non-finanziarie evidenziate è tenuta a fornire una spiegazione chiara e ragionevole di tale assenza.

 

Paolo Brambilla