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Economia
Deutsche Bank, guai americani. Coronavirus più nocivo per i gruppi tedeschi

Che le banche italiane rischino nuovamente di trovarsi tra l’incudine di crediti deteriorati in crescita e il martello di una redditività sempre più bassa è noto, ma non si deve pensare che il sistema bancario italiano sia il solo in Europa e nel mondo ad affrontare problemi strutturali rilevanti. Con la pubblicazione dei risultati trimestrali è emerso che le prime sei banche italiane hanno accumulato 1,565 miliardi di euro per possibili perdite legate al Covid-19 e nel complesso quasi 2,5 miliardi di euro per tener conto anche del deterioramento del credito in atto. In realtà visto i tempi con cui si manifestano le dinamiche creditizie la “bomba” non esploderà almeno fino a questa estate.

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Devono infatti passare 90 giorni dal mancato pagamento di una rata o rimborso perché la posizione venga trasformata da “in bonis” a “scaduta/sconfinata”, primo step per poterla poi (in caso di ulteriore inadempienza del debitore) portarla a “inadempienza probabile” e infine “sofferenza”. Stiamo parlando di cifre che è difficile stimare con precisione al momento, ma che applicando le ipotesi di Cerved Ratings potrebbe oscillare tra 8,5 e 17 miliardi di euro a fine anno, quindi compatibile con gli accantonamenti visti in questi primi tre mesi.

Ma come stanno le altre banche europee? Deutsche Bank, che nel 2007 capitalizzava circa 214 miliardi di euro ma che ormai in borsa vale meno di 12,3 miliardi di euro (Intesa Sanpaolo ne vale circa il doppio, mentre UniCredit vale poco meno di 14 miliardi) non troppo bene. La Fed di New York ha appena “fortemente ammonito” la controllata americana del gruppo di Francoforte per non essere riuscita a risolvere i numerosi problemi emersi in questi anni sul fronte della lotta al riciclaggio di denaro e adeguamento delle procedure di compliance.

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Fatto sta che la controllata americana di Deutsche Bank resta al penultimo livello (quattro su cinque) della scala di affidabilità calcolata dalla stessa Fed che in una lettera alla banca avrebbe espresso dubbi sulla capacità dell’istituto (che ha già cambiato due volte il Ceo dal 2017 per cercare di venire a capo del problema) di risalire al secondo gradino della scala valutativa. Una “tirata d’orecchi” a cui Deutsche Bank ha 90 giorni di tempo per rispondere ma che mina ulteriormente il già incerto futuro del gruppo negli Usa, dove dopo anni di inutili tentativi di guadagnare quote di mercato le attività di trading sono state infine tagliate mentre la banca ha provato a concentrarsi sulle attività di corporate finance e di wealth management.

Non sta messa molto meglio Commerzbank (che il governo tedesco, azionista al 15% sin dal bailout del 2009, ha fatto di tutto per portarla in sposa a Deutsche Bank) ha appena chiuso il trimestre con 295 milioni di euro di perdite nette, un dato peggiore delle attese, complici oneri straordinari legati al Covid-19 per 479 milioni di euro. La banca di recente è tornata sotto i riflettori per aver suggerito alla clientela, in un report, di ridurre le posizioni in titoli di stato italiani temendo un peggioramento dello spread contro Bund.

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Sia Commerzbank sia Deutsche Bank tuttavia dovrebbero anzitutto dire agli investitori di alleggerire la posizione nei loro confronti, visto che da una recente analisi del Centro Europa Ricerche sul rischio di mercato è emerso come Commerzbank sia esposta verso derivati per il 400% del proprio patrimonio netto, Deutsche Bank addirittura per il 600%, cosa che in una fase di elevata volatilità dei mercati qualche brivido nella schiena dovrebbe metterlo almeno agli investitori più avversi al rischio (quali sono quelli che tipicamente investono in titoli di stato).

Se in Germania, tradizionalmente “locomotiva economica” d’Europa, non si respira una bella aria per le banche, non è che le cose vadano molto meglio negli Stati Uniti. Nel primo trimestre le sei maggiori banche americane (Bank of America, Citigroup, Jp Morgan Chase, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley) hanno accantonato complessivamente 25,4 miliardi di dollari per perdite su crediti. Solo nei sei trimestri successivi all’esplosione della crisi 2008-2009 ne accantonarono di più.

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Il risultato sugli utili è stato immediato: in media sono calati del 47%, ma la variazione puntuale va da un -30% accusato da Morgan Stanley ad un -89% segnato da Wells Fargo. Anche in questo caso il peggio potrebbe ancora venire, perché è in questo secondo trimestre che il lockdown impatterà maggiormente sull’economia americana.

Jp Morgan Chase ad esempio ha fatto sapere di essersi mossa prevedendo per questi tre mesi un calo annualizzato del 25% del Pil e una disoccupazione oltre il 10%, peraltro “seguita da una solida ripresa nella seconda metà dell’anno”. Previsione che suona più come un auspico (e forse un “pizzino” al presidente Trump, la cui rielezione dipenderà dall’evolversi dello scenario economico americano da qui a ottobre) che come una sicurezza. Insomma: se Berlino piange, Washington non ride certo. E Roma, forse, dovrebbe mostrare minore sicumera e darsi maggiormente da fare, anche per evitare più cocenti delusioni poi.

 

 

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