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Economia
Credito, il risiko bancario italiano? Inutile, non abbassa i costi. L'analisi

Costi inferiori dopo il risiko bancario? Ancora un miraggio: le fusioni tra istituti bancari non hanno portato, fino ad ora, grandi vantaggi, soprattutto in termini di savings. E' il risultato a cui arriva l'analisi dell'Osservatorio delle banche italiane 2020, di Exton Consulting ricerca giunta alla sua seconda edizione e  condotto su cinquantuno banche commerciali (istituti retail che presentano in Italia almeno cinque filiali). Infatti,il cost/income degli istituti che hanno intrapreso processi di fusione non ha registrato un significativo miglioramento rispetto a quelli che non l’hanno fatto. I valori sono simili tra loro.

"Non si sono registrati grandi vantaggi dai processi di aggregazione. Un esempio su tutti è UniCredit che ha un cost/income più basso, 66%, rispetto a istituti che hanno già portato avanti processi di fusione. I costi del personale sono allineati e rimangono invariati quelli amministrativi", spiega Gabor David Friedenthal, partner di Exton Consulting.

Dall'analisi, sono rimaste escluse dall’indagine le banche d’affari, quelle in stile private banking, le neobanche non facenti parte di gruppi bancari tradizionali, quelle in amministrazione straordinaria e le BCC come singole entità. Il panel è stato formato prendendo in considerazione le banche Top 10 (oltre 700 filiali e un totale attivo di oltre 65 miliardi), dieci banche medie (con oltre 100 filiali e meno di 700 e un attivo compreso tra i 7,5 miliardi e i 65 miliardi, otto Popolari medie (filiali tra 50 e 700 e totale attivo tra i 2 miliardi e i 65 miliardi), tredici banche piccole (tra 5 e 100 filiali e totale attivo inferiore a 7,5 miliardi) e dieci Popolari piccole (meno di 50 filiali e attivo inferiore a 2 miliardi).

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L’analisi fa anche il punto sulla solidità delle banche italiane: tutti gli istituti, infatti, hanno un elevato grado di capitale regolamentare, presentando un Cet1 ben oltre il livello minimo del 7%, arrivando, nel caso delle banche popolari, al 17%. In termini, invece, di performance sull’equity emergono delle differenze significative anche tra i principali istituti bancari del settore.

"Sono Unicredit (4,8%), Intesa Sanpaolo (4,8%) – evidenzia Friedenthal – e Crédit Agricole (4,7%) ad avere i migliori rendimenti sul capitale. Quest’ultima è un caso scuola, perché è capace di gestire il rischio operando efficacemente a livello territoriale. Inoltre ha un consolidato che include importanti attività nel credito al consumo e nell’assicurato. Tra le banche di dimensioni intermedie, BPER ha una minore incidenza dei proventi finanziari e ha effettuato minori dismissioni di NPEs".

C’è, per il 2020, l’incognita Covid. "Per quest’anno, ma anche per il 2021 – evidenzia Friedenthal – ci aspettiamo che la pandemia comporti un progressivo peggioramento della qualità del credito, con l’emergere di rettifiche significative che colpiranno i bilanci delle banche man mano che le moratorie e i sostegni pubblici alle imprese verranno meno". Occorre un cambio di paradigma sia dal punto di vista del personale sia degli investimenti in tecnologie.

"Le sinergie di costo – conclude l'esperto – sono state rapidamente compensate dal deteriorarsi della situazione di business e dall’incremento dei costi one off per le integrazioni. In uno scenario così complesso e in cambiamento, sul personale e sui costi IT in particolare serve ancora più incisività".

Una sezione dell’Osservatorio di Exton è dedicata alle banche popolari, i cui profitti risultano ancora legati principalmente alle attività tradizionali creditizie e meno a quelle finanziarie. "Nel 2019 – spiega ancora Friedenthal – registriamo un costante miglioramento degli indici di redditività e solidità delle banche popolari. Perché migliorano il cost/income, il margine di intermediazione per dipendente e gli indici di solidità patrimoniali. Però, la raccolta indiretta, nonostante sia già molto bassa rispetto alle altre banche, diminuisce ulteriormente, influenzando i proventi da commissioni. Inoltre, in un contesto di bassi tassi d’interesse, diventa sempre più problematico il fatto che il peso del margine d’interesse rimanga elevato. Altro aspetto preoccupante è la grande quantità di deteriorato (NPE ratio) mantenuto da diverse banche".

L’indagine evidenzia una diminuzione del numero di filiali tra il 2018 e il 2019 (in particolare la BP Agricola di Ragusa, che passa da 91 a 85), ma con attivi costanti, laddove sono i crediti verso la clientela la voce predominante. È leggermente in aumento il margine di intermediazione (Banca Valsabbina passa da 106 a 126 milioni di euro e la BP del Lazio da 86 a 95 mln di euro), grazie ai proventi finanziari.

La componente di margine d’interesse è predominante, ma i core revenues sono in diminuzione (per la BP Agricola di Ragusa si è passati da 154 a 144 milioni di euro tra il 2018 e il 2019; anche la BP Pugliese da 129 a 121 milioni di euro). Risulta elevato il margine di intermediazione per dipendente nella Frusinate e Vesuviana (da 270 del 2018 a 291 del 2019) e per la banca popolare di Puglia e Basilicata (da 220 a 321). La ricerca evidenzia un elevato rapporto cost/income per le popolari Sanfelice (85%) e del Mediterraneo (che ha superato il valore limite del rapporto tra costi operativi e margine di intermediazione, assestandosi al 102%).

Esaminando il risultato d’esercizio, fra le popolari più grandi è la banca Valsabbina a registrare le migliori performance, passando da 15,2 milioni del 2018 a 20,3 milioni del 2019. Il rapporto tra utile (perdita) d’esercizio e il patrimonio netto risulta, per questo istituto, intorno al 6%, in crescita rispetto all’anno precedente."Per il futuro, la sfida principale che si troveranno ad affrontare le popolari – conclude Friedenthal – sarà di diversificare maggiormente le fonti di raccolta delle risorse, oggi troppo legate alla raccolta e ai prestiti, con una notevole crescita di NPL, puntando di più sulle commissioni e sui proventi finanziari".

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