"Dazi al 15%, impatto da (almeno) 20 miliardi sulle nostre imprese. Ma con incentivi e sconti fiscali lo Stato può limitare i danni" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 19:03

"Dazi al 15%, impatto da (almeno) 20 miliardi sulle nostre imprese. Ma con incentivi e sconti fiscali lo Stato può limitare i danni"

Credito d’imposta per compensare i rincari e fondi per aiutare le aziende. L'intervista al tributarista Gianluca Timpone

di Rosa Nasti

Dazi e svalutazione del dollaro colpiscono il Made in Italy: ecco come lo Stato può salvare imprese e occupazione

Dal 7 agosto entreranno in vigore i nuovi dazi voluti da Donald Trump. Ma già con quelli introdotti da aprile – quindi prima ancora dell’entrata in vigore dei nuovi – il tycoon ha incassato qualcosa come 152 miliardi di dollari. E ora, con l’accordo che impone un dazio del 15% su alcune importazioni europee, ci si chiede: è davvero il miglior compromesso possibile per l’Unione Europea? Quali saranno le conseguenze per il made in Italy, e come può l’Italia reagire in modo efficace? Affaritaliani ne ha parlato con il tributarista Gianluca Timpone.

Un dazio del 15% siglato con gli Stati Uniti è davvero il miglior accordo che l’Ue potesse ottenere?

Sicuramente non si può definire il miglior accordo possibile. Tuttavia, considerando l’instabilità di chi ha introdotto queste misure è probabile che tra qualche mese ci sarà una svolta. Non si tratta di una misura definitiva: sarà proprio il mercato americano, con i suoi contraccolpi, a spingere per un dietrofront. In realtà l’aumento è stato contenuto rispetto al rischio iniziale: si parlava del 30%, mentre oggi parliamo di un 15% che si aggiunge a un dazio esistente tra il 4 e l’8%. In termini reali, si traduce in un rincaro di poco superiore al 10% rispetto al passato. Ma ripeto: la partita non è chiusa, sarà il mercato a ribellarsi.

Ma se questi dazi colpiscono soprattutto gli importatori americani, e quindi l’economia interna degli Stati Uniti, qual è allora il vero obiettivo di Trump?

Semplice: fare la voce grossa. Mandare un messaggio chiaro, e cioè che anche la politica commerciale può essere condizionata unilateralmente dagli Stati Uniti. Trump vuole dimostrare di avere il potere di influenzare gli scambi internazionali e ridisegnare gli equilibri globali. Tuttavia, questa è più una mossa di facciata che una strategia sostenibile. Perché il mercato interno americano non regge l’aumento dei costi delle materie prime.

E, dato che molte componenti provengono dall’estero, presto inizierà a scarseggiare la componentistica: questo ridurrà la produzione di beni di punta americani, colpendo direttamente le imprese e gli investitori. Parliamo degli stessi investitori che hanno sostenuto Trump. Quindi, paradossalmente, sta creando un cortocircuito dentro il suo stesso sistema economico.

Quindi l’Europa potrebbe iniziare a guardare altrove per esportare?

Oggi l’Italia esporta verso gli Stati Uniti per un valore complessivo di circa 67 miliardi di euro, secondo i dati della Banca d’Italia e dell’Istat. Con i dazi attuali, la nostra economia rischia una perdita di competitività stimata tra i 20 e i 24 miliardi di euro. Un colpo pesante per il nostro export, soprattutto in alcuni settori strategici.

Quindi, concretamente, cosa si sta pensando di fare?

Per ora si sta prendendo tempo. Si sta dicendo che l’Italia potrebbe subire una perdita di fatturato a causa dei dazi, quindi si vuole prima verificare l’impatto reale sulle imprese esportatrici. L’idea è questa: valutare i contraccolpi dell’introduzione dei dazi e, in base alle perdite di fatturato, intervenire a sostegno delle aziende italiane che esportano.

E in che modo si potrebbe intervenire?

Le opzioni sul tavolo sono due. La prima è introdurre un credito d’imposta legato alla perdita di export. La seconda è prevedere contributi diretti per aiutare le imprese a individuare mercati alternativi rispetto a quello statunitense. Con queste due misure, si punta a mantenere stabile il fatturato. Il credito d’imposta, in particolare, servirebbe a compensare l’aumento dei costi derivanti dai dazi: se oggi una merce subisce un rincaro dell’11% (tra il 4% e l’8% attualmente già applicato), lo Stato potrebbe assorbire questo +15% complessivo.

Come funzionerebbe questo assorbimento da parte dello Stato?

Parliamo di un costo stimato di circa 20 miliardi. Lo Stato potrebbe coprirlo con un credito d’imposta da distribuire su 3-4 anni. Così, ad esempio, nel primo anno l’impatto per le casse pubbliche sarebbe di circa un quinto: diciamo 4 miliardi. Intanto, lo Stato continuerebbe a incassare le imposte calcolate sul fatturato, che resterebbe stabile. L’obiettivo è proprio questo: garantire alle imprese un fatturato costante, assorbendo il costo aggiuntivo.

Ma, oltre al dazio, c’è anche un "dazio occulto": la svalutazione del dollaro, che si somma al rincaro. Se mettiamo insieme il 15% di dazio e il 13% di svalutazione, arriviamo a un impatto del 28% sui 67 miliardi di export verso gli USA: ecco da dove viene la cifra dei 20 miliardi di costo. Ma spalmandoli su 5 anni, il primo anno lo Stato ne sostiene solo 4. E poi gli altri anni? Il punto è che questa è una misura ponte, soprattutto per il primo anno, per valutare l’impatto effettivo dei dazi. Un anno può bastare: serve a stimare il danno, a mantenere il fatturato e a permettere allo Stato di continuare a incassare le imposte sulle vendite..

Nel frattempo si dà tempo alle aziende di trovare alternative?

Esatto. In un anno le imprese possono esplorare mercati alternativi, riducendo la dipendenza dagli USA. E se mantieni stabile il fatturato, le imprese non delocalizzano. Non vanno a produrre direttamente in America, non licenziano e quindi non aumentano i disoccupati. I contributi previdenziali restano costanti, e si evita di aprire un fronte sociale interno.

Ma tutto questo si basa su ipotesi. Il dazio del 15% c’è, ma Trump è famoso per cambiare idea. E se lo togliesse tra due mesi?

E' difficile costruire una misura definitiva su qualcosa che potrebbe cambiare in fretta. Però l’impatto massimo è quantificabile, perché c’è comunque un accordo con l’Unione Europea: si può migliorare, ma difficilmente peggiorare. Per questo l’intervento si immagina a durata annuale: non perché sia un limite rigido, ma perché in un anno si può già contenere l’impatto per lo Stato. È una misura di tenuta: preserva occupazione, fatturato, gettito fiscale e, nel frattempo, disincentiva la delocalizzazione.

Quali settori del Made in Italy rischiano di più?

I dazi sui prodotti di gamma medio-alta possono incidere relativamente. Perché un prodotto pregiato, o chiamiamolo pure di lusso, anche se subisce un aumento di prezzo, tende a perdere meno mercato. Il consumatore che cerca qualità è disposto a pagare qualcosa in più. Paradossalmente, in certi casi, più un prodotto di lusso aumenta di prezzo, più può crescere la propensione all’acquisto. So che può sembrare controintuitivo, ma in queste fasce di mercato il dazio potrebbe perfino avere un effetto positivo sul fatturato delle aziende.

Diverso, invece, il discorso per i prodotti di largo consumo: lì l’introduzione di un dazio rischia di essere letale. Parliamo di una vera e propria morte commerciale. Il consumatore americano medio, di fronte a un rincaro, si orienterà su alternative locali o internazionali con la stessa funzione. E una volta che ha cambiato abitudine, è difficile che torni indietro, anche se il prezzo dovesse rientrare ai livelli precedenti. Questo è un rischio serio, anche dal punto di vista psicologico e di marketing: se perdi il consumatore una volta, lo perdi per sempre.

Poi, certo, ci sono casi particolari come il Parmigiano Reggiano: quello è praticamente insostituibile. Puoi trovare prodotti simili, ma la qualità e la quantità non sono comparabili. In quei casi, il consumatore è disposto a pagare di più pur di avere il prodotto autentico.

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