Intervista a Alberto Gangemi su futuri scenari della transizione organizzativa - Affaritaliani.it

Economia

Intervista a Alberto Gangemi su futuri scenari della transizione organizzativa

Oggi più che mai il lavoro ha bisogno di un senso. La transizione organizzativa è diventata necessaria e urgente, l'intervista ad Alberto Gangemi


 

Quali sono i motivi, oltre a oggettive difficoltà, che frenano questa transizione? 

Innanzitutto, cambiare l’organizzazione significa rinunciare (per molti di quelli che dovrebbero promuoverla) a una quota rilevante del proprio potere di decisione, di controllo, di comando, e assumere (per molti che quel potere dovrebbero riceverlo) responsabilità, oneri e rischi crescenti.  In secondo luogo, portare e distribuire autonomia e responsabilità dentro le organizzazioni va nella direzione opposta a quella percorsa negli ultimi trent’anni nella cultura manageriale e politica europee: invece che separare lavoro e vita, impresa e comunità, si tratta di dare centralità al lavoro e all’impresa come luoghi di crescita delle persone e di sviluppo della cittadinanza. Se passo la maggior parte del mio tempo in un’azienda in cui non decido come lavorare e non mi assumo responsabilità rilevanti (perché c’è qualcuno, il mio capo, che lo fa per me), per quale motivo, da cittadino, dovrei avere voglia di impegnarmi, decidere in modo autonomo, assumermi responsabilità? 

 

Tutto questo richiede molto tempo? 

La transizione verso modi di lavorare e di organizzarsi distribuiti e non gerarchici non può essere semplicemente stabilita attraverso un cambio nell’organigramma, di policy o di processo. Come per quella ecologica, la transizione organizzativa dipende da fattori istituzionali (regole, vincoli e norme), infrastrutturali (architettura organizzativa), ma soprattutto individuali (comportamenti e stili di lavoro) e culturali (valori, pratiche, abitudini) e tutto questo non può avvenire dall’oggi al domani. 

Concretamente, quali ragioni motivano questa transizione. Perché le aziende dovrebbero mettersi su questo terreno?
 

Ci sono almeno tre ragioni per cui la transizione organizzativa diventerà sempre più necessaria: 


⦁    Nelle situazioni complesse e incerte i sistemi che distribuiscono la decisione hanno maggiori opportunità di sopravvivere, adattarsi e crescere. 
⦁    Le persone ricercano il significato anche nel loro lavoro, e non solo nel tempo libero; nelle organizzazioni ad alta autonomia le persone partecipano attivamente alla costruzione del senso del loro lavoro: sanno perché fanno quello che fanno e negoziano il modo di farlo sulla base della competenza e della responsabilità che sono disposte ad assumersi e non del posto che occupano nell’organigramma. 
⦁    La disseminazione e la remotizzazione delle attività (almeno per una parte dei lavori) a cui ci ha obbligato il lockdown ha certificato che il controllo del lavoro non aumenta i risultati e non migliora la produttività; milioni di persone abituate a farsi dire cosa fare e come e ad essere controllate a vista hanno continuato a garantire la produzione anche fuori dall’ufficio e dal radar del proprio manager, usando gli strumenti a disposizione per rimodulare le proprie pratiche di lavoro e di comunicazione e sviluppando bisogni organizzativi e individuali inediti, rispetto ai quali difficilmente si tornerà indietro.

 

Qual è il ruolo della politica e del Governo in tutto questo?

Non vedo grandi proposte su questi temi. Dal Governo attendiamo politiche e decisioni: in questi primi mesi non sono arrivate sulla transizione ecologica né su quella organizzativa. I veri assenti sono tuttavia i partiti: da loro ci si aspetterebbero proposte, piattaforme di discussione, la capacità di raccogliere bisogni, interpretarli. Ma nessun partito in Italia frequenta ormai da decenni il mondo del lavoro. La distanza tra vita lavorativa e vita politica è diventata siderale. Cominciare ad ascoltare anche dopo le campagne elettorali sarebbe un segno di maturità e di speranza, prima che anche per questa transizione sia troppo tardi.