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Economia
Post Covid, l'Italia riparte dalla moda: in 7 mesi il fatturato cresce del 22%

Il settore della moda, tra mesi di chiusure, restrizioni,  limitazioni sociali e culturali, causa pandemia, è stato tra i più colpiti. Dall'Italia all'estero, le imprese hanno subito ingenti danni su vendite e liquidità. Produrre e commercializzare, due azioni, tanto basilari ed essenziali per un'attività economica, sono diventate lente e complesse: forniture assenti con filiere in stallo produttivo. Ma ora  sarà la chiave centrale per la ripresa del Paese. 

Si tornerà in parte a produrre in Italia ma attenzione alla carenza di manodopera: le imprese non hanno a sufficienza figure specializzate, dai sarti ai confezionatori. E' l'analisi compiuta da Euler Hermes, società del Gruppo Allianz, che ha realizzato, in collaborazione con l’Istituto di ricerca Format Research, un’indagine sulle imprese manifatturiere del settore “moda”.

Secondo il rapporto, il 2020 ha lasciato il segno sul settore: il 90% delle imprese sono state colpite negativamente, con conseguenze in alcuni casi gravi. Ma ora la ripartenza è trainata dalla ripresa generale dei consumi. Rispetto a luglio 2020, il valore delle vendite al dettaglio è cresciuto su tutti i canali distributivi. Gli aumenti maggiori hanno riguardato abbigliamento e pellicceria (+15,4%) e il settore delle calzature, articoli in cuoio e da viaggio (+12,0%).

Dopo il contraccolpo del 2020, il 2021 è stato l’anno della ripartenza anche per la Moda. Nei primi sette mesi il settore ha seguito il trend generale, crescendo in termini di fatturato del 22,2% contro il +27,2% messo a segno dal settore manifatturiero rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’export del settore, che rappresenta il 10,4% del totale nazionale, è cresciuto nello stesso periodo del 22,1% grazie all’exploit della pelletteria (+25,5%), con differenze poco marcate tra mercati Ue ed extra Ue. In forte calo, invece, l’import di prodotti tessili (-33,1%) soprattutto da Regno Unito, Usa, Svizzera e Cina (-76,1%).

Con il ritorno delle sfilate in presenza e delle vendite di un tempo - fa notare l'indagine - la moda ha ripreso il suo ruolo centrale all’interno dell’economia italiana. 

A livello nazionale si ampliano i progetti dei poli produttivi incentrati sul fashion luxury e la diversificazione delle maison in altri settori, come la ristorazione. In crescita anche il riciclo e i progetti di sostenibilità dell’impatto ambientale – specie nel fast fashion – nell’ottica della compensazione delle emissioni di CO2, anche se la moda circolare ha ancora ampissimi margini di miglioramento.

A livello globale i punti di forza dell’industria della moda rimangono la forte domanda di dispositivi di protezione personale e le tendenze strutturali favorevoli di alcuni segmenti (abbigliamento sportivo, lusso, design) che sono innovativi e in perenne trasformazione.

I punti di debolezza sono rappresentati dall’agguerrita concorrenza di Paesi emergenti come la Cina, dalla vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali agli shock esterni (pandemie, tensioni commerciali) e dalla pressione molto forte da parte dei grandi clienti. L’e-commerce, oltre a continuare nel suo tumultuoso sviluppo, aumenta la concorrenza dal lato dei prezzi così come il successo del mercato dell’usato e del vintage che sono in rapida crescita nelle economie mature.

Secondo lo studio, la chiave per il futuro, in tutti i settori produttivi, sarà legata alla capacità di sfruttare al meglio lo scivolo della ripresa e naturalmente i sostegni arrivati e che arriveranno dallo Stato e dall’Unione Europea. Per questa ragione sarà strategico poter contare su una manodopera qualificata in grado di assicurare qualità ed efficienza alle imprese stesse.

Per le imprese del settore moda tutto questo non è scontato. Negli ultimi cinque anni infatti il 76% delle società attive nel settore ha avuto la necessità di dotarsi di forza lavoro qualificata, mentre Il 47% ha avuto difficoltà nella ricerca del personale di cui aveva bisogno. Queste difficoltà sono risultate più accentuate presso le imprese di dimensioni minori (10-49 addetti), presso le imprese dell’abbigliamento e presso quelle operative nelle regioni del Nord-Est e del Sud. Le figure qualificate per cui le imprese hanno trovato maggiori difficoltà nel reperimento sono state quelle dei sarti, dei conduttori di macchine utensili e dei confezionatori.

A causa della mancanza di candidati con le competenze richieste, il 70% delle imprese - spiega il rapporto Euler Hermes - ha dovuto rinunciare o ha dovuto posticipare la ricerca delle figure specializzate delle quali aveva bisogno, con tutto ciò che questo ha potuto significare in termini di riduzione delle performance delle imprese sul mercato e conseguente riduzione di competitività.

In ogni caso, secondo lo studio, si tornerà a produrre nel territorio nazionale. Attualmente il 13% delle imprese produce sia in Italia che all’estero. Tra le imprese che producono anche all’estero, il 40% ha avviato politiche di diversificazione dei processi produttivi mentre il 60% continuerà a produrre all’estero come sta già facendo. All’interno del 40% che sta valutando un cambio delle strategie produttive, il 4% ha già deciso di riportare tutta la produzione in Italia entro i prossimi due anni, il 6% ha deciso che sposterà la produzione in paesi più vicini all’Italia, mentre il 30% circa ha deciso che comunque sposterà le proprie attività produttive dai siti attuali all’estero, anche se deve ancora definire i dettagli delle proprie politiche in tal senso

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