La crisi del debito non è finita. Renzi si gioca tutto nel 2014
La vicenda Banco Espirito Santo, seconda maggiore banca portoghese per capitalizzazione crollata giovedì del 17% sul listino di Lisbona dopo che la controllante Espirito Santo International aveva annunciato il giorno prima di dover far slittare il pagamento degli interessi su alcuni suoi bond a breve scadenza, ha riportato in vita il fantasma di una crisi banco-sovrana che si credeva ormai alle spalle dopo il tracollo della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo stesso nei mesi a cavallo tra l’estate del 2010 e quella del 2011.
Mesi che avevano messo a dura prova i mercati tanto che la Bce dovette intervenire in prima persona acquistando sul mercato a più riprese bond dei paesi più a rischio, sostenendo insieme alla Ue e al Fondo monetario internazionale una serie di “bailout” (programmi di aiuti internazionali ai paesi in crisi che evitava il ricorso al mercato e dunque l’emissione di nuovi titoli di stato in cambio dell’impegno a compiere una serie di riforme “draconiane” e tagli alla spesa pubblica) che non evitarono, comunque, la necessità di un successivo “haircut” del debito greco. La ristrutturazione è stata pagata per volere di Germania e Francia anche e soprattutto dai bondholder privati (la Bce e altre istituzioni sovranazionali non si videro applicato alcun “taglio” sui titoli greci in portafoglio), né un successivo “bailin” per Cipro (peraltro da anni nota centrale di smistamento del “nero” in piena Eurozona), dove a pagare furono in misura ancora più decisa anche i titolari di depositi bancari sopra una certa soglia, residenti e non.
Non potendo, per il veto di Berlino (spalleggiata da Parigi), imitare la Federal Reserve e dare il via a un “quantitative easing” in grande stile, in quell’occasione Mario Draghi sfoderò tutta la sua capacità persuasiva, convinse i mercati che era pronto a usare “qualsiasi misura necessaria” e rifinanziò in due successive tranche oltre 800 grandi e medie banche europee per circa 1.030 miliardi di euro, facendo pagare un tasso che all’epoca sembrava molto competitivo (l’1% annuo) e garantendo alle banche, che in cambio depositarono nelle casse della Bce dei “collaterali” (ossia titoli di stato, obbligazioni e cartolarizzazioni di crediti “in bonis” a garanzia della liquidità ricevuta), che non avrebbero dovuto rendere la liquidità stessa prima di tre anni, salvo desiderassero rimborsarla anticipatamente.
I mercati si salvarono, ma i problemi rimasero: la crescita, sotto la pressione di una repressione fiscale che sarebbe stata pesante da sopportare anche in piena espansione, fece cadere l’Eurozona in recessione, con paesi come la Grecia che finirono al tappeto e ancora si debbono riprendere ed altri, come la Spagna, che per salvarsi dovettero ricorrere a ulteriori iniezioni di capitale “mirate” da parte dei fondi “salva stato” europei per poter dar vita a delle “bad bank” con cui alleggerire le banche della maggior parte delle sofferenze e favorire una vasta ristrutturazione dei rispettivi sistemi creditizi nazionali.