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Economia
Telecom Italia, a Vivendi resta solo l'opzione legale per evitare la disfatta


Telecom Italia: fino a che punto Vivendi, azionista che esercita il controllo di fatto col 23,9% del capitale) sarà disposta a concedere terreno alla "fronda" interna guidata dal fondo attivista Elliott Management (socio al 9% ma con una partecipazione potenziale del 13,73%), che fa capo al finanziere americano Paul Singer, in buoni rapporti con l'establishment repubblicano Usa ma anche con Silvio Berlusconi, e dalla neo-socia Cassa depositi e prestiti, che per rilevare il 4,262%  dell'ex monopolista telefonico italiano ha dovuto investire non meno di 750 milioni di euro?

Una fronda che, in vista dell'assemblea del 24 aprile dove si voterà per la rimozione di sei consiglieri in quota Vivendi e la loro sostituzione con altrettanti proposti da Elliott, si è di fatto estesa a quasi tutti i grandi fondi (come BlackRock, socia al 2,058%, e nel complesso titolari del 53% di Telecom Italia), più favorevoli alle proposte avanzate da Singer per dare "una scossa" a Telecom Italia che non alle promesse di rivedere il piano industriale avanzate da Vivendi.

A fianco del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré resterebbero dunque solo i fondi francesi come Financiere De L'echiquier (0,44%), Credit Agricole (0,3%), Natixis ed Exane (0,57%), con un 5% circa di capitale. Capendo di aver ormai perso la battaglia sul mercato e con un titolo in carico a 1,07 euro su cui registra una minusvalenza potenziale del 20%, ossia di 850 milioni circa su 4,2 miliardi investiti, a Vivendi non è rimasto altro che presentare ricorso in tribunale contro l'integrazione dell'ordine del giorno decisa dai sindaci di Telecom Italia.

Spetterà dunque al tribunale adottare "provvedimenti di urgenza" entro la data dell'assemblea, col rischio, tuttavia, che si arrivi ad una paralisi dell'attività societaria. Un'ipotesi che potrebbe far invertire nuovamente il trend di borsa del titolo (che nell'ultima settimana ha recuperato un 8% circa, il 15% negli ultimi tre mesi), rendendo così ancora più problematico l'eventuale disimpegno del gruppo di Vincent Bolloré, un disimpegno che potrebbe essere invece più agevole dopo lo che scorporo della rete d'accesso avrà creato valore per tutti gli azionisti, Vivendi compresa.

Se ha ragione il fondo Elliott allo stato attuale (ossia dentro Tim) la rete vale 9 miliardi di euro, ma una volta apportata ad una NetCo il valore salirebbe a 15 miliardi, pari a circa 0,3-,04 euro di maggior valore per azione, che sommati agli attuali 85-86 centesimi a cui oscilla il titolo permetterebbero a Bolloré di uscire senza perdita da un empasse rivelatosi più ostico del previsto.

Peraltro, l'eventuale uscita da Telecom Italia metterebbe seriamente a rischio il progetto industriale di creare una "Netflix del Sud Europa" e a quel punto anche la posizione in Mediaset (29% del capitale di cui il 19,95% appena trasferito al blind trust Simon Fiduciaria, con una settimana di anticipo rispetto alla scadenza fissata dall'Agcom) potrebbe non avere più un senso strategico, tanto più dopo un accordo tra Mediaset e Sky che per molti prefigura una futura cessione delle attività pay di Mediaset Premium al gruppo di Rupert Murdoch entro fine anno.

Il problema, anche qui, è che Bolloré ha i titoli del "biscione" in carico a 3,7 euro, mentre in borsa Mediaset oscilla a poco più di 3,25 euro e in caso di cessione sul mercato della partecipazione di Vivendi, anche scaglionata, rischia di perdere ulteriore terreno. Così un accordo pacificatore con Arcore resta l'unica strada percorribile per Bolloré, se vuole salvare i propri programmi industriali ed evitare di chiudere la "campagna d'Italia" con oltre 1,5 miliardi di euro di minusvalenze anche in caso di uscita senza danni da Tim.

 

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