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Spettacoli
Gianna Nannini: "Tranne l'eroina ho provato tutte le droghe"
Gianna Nannini Instagram

«L’unico ad avermi capito davvero a 14 anni, quando cercavo il mio posto nel mondo e mi sbattevo tra un provino e l’altro, fu Mike Bongiorno. “Questa ragazza ha qualcosa”, disse al concorso delle voci nuove». Inizia con questo aneddoto sui suoi esordi l’autobiografia (piena di episodi inediti) di Gianna Nannini, pubblicata come storia di copertina del numero di Vanity Fair in edicola da mercoledì 2 ottobre, a pochi giorni dal lancio di La differenza, singolo di debutto del nuovo omonimo album. Il ventesimo per lei, il primo inciso oltreoceano, a Nashville, Tennessee, dopo averlo creato in soli tre mesi a Londra, la sua città, ma non a casa bensì in una stanza in affitto: «Cercavo un posto in cui Penelope, mia figlia, non entrasse ripetendo “mamma, quando smetti di fare la cantante?” e in cui essere libera», racconta Nannini nell'intervista al vicedirettore del settimanale, Malcom Pagani. «Tutte le donne dovrebbero avere una stanza solo per respirare, immaginare, scrivere».

Fare la differenza, letteralmente, come assicura di essere riuscita a fare con questo disco: il suo obiettivo fin da quando arrivò giovanissima a Milano, scappando dalla sua Siena e da un destino scritto nel laboratorio di pasticceria del padre. «Mantenersi, all’inizio, non fu facile», ricorda su Vanity Fair. «Mio padre mi aveva promesso una macchina se avessi conseguito il diploma prima del previsto. Feci due anni in uno e a 18 anni, con la Lancia regalata da papà, scorrazzavo in questa città tutta nuova facendomi rubare l’autoradio per incassare i soldi dell’assicurazione. La lasciavo in bella vista sul sedile del passeggero, ogni tre mesi qualcuno regolarmente spaccava il vetro e io incassavo felice i soldi dell’assicurazione».

Alcuni dei versi che hanno reso immortali le sue canzoni li attribuisce a «colpi di culo», a partire da «I maschi disegnati sul metrò/ confondono le linee di Mirò» («A mia madre piaceva Miró, vidi questi cazzi disegnati sui vagoni a Milano e mi venne in mente») ma l’amore, e la sofferenza che provoca, è il nucleo della sua ispirazione. «Anche se amare fa soffrire, ho sempre amato molto», racconta nell’intervista. «Da ragazza non mi piacevo ed evitavo di guardarmi allo specchio. Mi vedevo brutta. Il naso lungo, le tette che di diventare grandi non volevano proprio saperne, lo sviluppo che tardava ad arrivare e un canone estetico che non collimava con quello in voga. L’adolescenza è un’età terribile. Come rimani male nell'adolescenza, dopo non rimani più. Il primo amore, e chi se lo dimentica? Ti sorprende puro, senza meccanismi di difesa. Un ragazzo che mi fece incazzare e a cui in realtà piaceva un’altra: son quelle cose che ti capitano a 14 anni e ti fanno decidere di diventare cantante».

«Ami gli uomini? Ami le donne? Sempre le stesse domande, davanti alle quali uno vorrebbe dire soltanto: “Ma te li fai i cazzi tuoi?”. Eppure sarebbe semplice: a me le divisioni, a partire da quelle di genere, non mi hanno mai interessato granché», spiega a Vanity Fair. «Ho sempre amato uomini e donne e soprattutto non ho mai avuto freni nel sentire e seguire quello che volevo. Le ho sempre rifiutate, le definizioni. Al termine “coming out”, che ghettizza, ho sempre preferito la parola libertà. Alla parola gay, che ti pretenderebbe felice e ormai non usano più neanche in America quando indicono un pride, preferisco frocio. Chi è libero nel linguaggio è libero dentro».

Nell'intervista Gianna torna al momento più difficile della sua vita. «Tutti mi dicono che so’ pazza, ma credo semplicemente che quando uno è sé stesso sembra matto. La follia è un’altra cosa. Io l’ho sperimentata e ho sperimentato anche la schizofrenia. So cosa sono. Mi è capitato di morire e poi rinascere. All'inizio degli anni ’80 sono stata molto male. Ero piena di paranoie, vivevo una crisi profonda, avevo un io diviso, uno stato mentale alterato e paura di ogni cosa, come una bambina. Ero divisa a metà e a tratti riaffioravano frammenti dell’infanzia a cui non avevo dato nessuna importanza. Quando ero piccola mio padre mi diede uno schiaffo e mi tolse una pasta con la crema dalle mani. Fu una tragedia inconscia, che interiorizzai. Per anni non ho più toccato una pasta alla crema, mi terrorizzava la sola idea». Si impose un periodo di isolamento a Colonia, passato a comporre assieme al produttore e musicista Conny Plank, per fare musica e abbandonare «la Gianna di prima per lasciare spazio alla nuova. In un certo senso è come se fossi nata nel 1983. La Gianna che c’era prima riposa in un cimitero».

È definitivamente sepolta nel passato, rivela per la prima volta Nannini a Vanity Fair, anche la dipendenza dalle droghe. «Tranne l’eroina, le ho provate tutte. Dalla cocaina, per un po’ di tempo, quasi quarant’anni fa, sono stata dipendente. Ero a Londra e ce la portavano in studio con la stessa semplicità con cui oggi ti consegnerebbero un panino. Non stavo mai senza, ci viaggiavo, ero del tutto incosciente. Un giorno vado in bagno e mentre scarto il sasso rosa, quello mi cade nel cesso. Lo vedo sparire nell’acqua e, mentre si scioglie lentamente e sto per metterci le mani dentro, mi dico: “Non posso fare questa cosa, non posso ridurmi così”. Ho smesso lì. Il giorno dopo. Poi ho avuto una ricaduta, ma dopo aver fatto un tiro e aver bevuto una tequila prima di un concerto, collassai e dissi definitivamente basta».

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