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Esteri
I governi hanno paura dei loro popoli

Il popolo mormora — I governi ovunque sono sempre più intimoriti dalle loro popolazioni. Serpeggia il sospetto che forse il popolino stia esagerando quando esercita in senso sgradito la libertà di parola o il diritto di voto, abusando di un potere che doveva restare più ideale che reale.

Il fenomeno è particolarmente evidente nei paesi dove gli abitanti sono più deboli nei confronti di chi li governa—in Africa per esempio. Nell’ultimo anno i governi di Camerun, Ciad, la Repubblica del Congo, la Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Gambia e Uganda hanno tutti bloccato l’accesso ai social network e a Internet in fase elettorale e durante altri periodi politicamente sensibili.

Non è solo una questione africana. Secondo Charlotte Cross, docente dell’Open University inglese, tra giugno del 2015 e luglio del 2016 si sono avute 81 sospensioni “politiche” dell’accesso Internet in 19 paesi nominalmente democratici, compresi anche India, Turchia e Vietnam. In Occidente siamo più eleganti. Negli ultimi tempi gli elettori avrebbero forse “abusato”—a secondo dei punti di vista—dei loro diritti d’espressione attraverso la parola e il voto nel caso del referendum Brexit e durante le presidenziali americane. Si teme che possano fare altrettanto durante le prossime elezioni in Francia, dove la campagna presidenziale è segnata dalla spettacolare implosione dei candidati più graditi all’Establishment politico-economico.

In Italia si è solo pensato di rimandare le elezioni il più a lungo possibile. Nel mondo anglosassone— dove le sospensioni del voto sono meno praticabili—è stato invece introdotto il concetto di “fake news”, che più di notizie “false” di per sé, sarebbero informazioni “artefatte” o almeno “non ufficiali”.

Le notizie manipolate ad arte non sono certo una novità, ma gli strumenti del Web hanno spezzato il monopolio nel crearle e distribuirle che in passato era appartenuto agli Stati e ai gruppi editoriali con cui interagivano. Le reti social danno anche alle persone tecnologicamente inette—e meno capitalizzate—la possibilità di esprimersi al pubblico. Sono la Uber delle informazioni, con i governi e i vecchi centri di potere nel ruolo dei tassisti che si sentono sottrarre un feudo storico.

Come i tassisti, l’Establishment non è senza armi e alleati. Negli Usa si è investito gli operatori stessi— soprattutto Facebook e Twitter—dell’autorità di gestire una sorta di imprimatur con cui distinguere le notizie “corrette” da quelle invece false, o almeno politicamente disdicevoli. La prima reazione europea è quella di sempre: creare commissioni, comitati e “tavoli” per discuterne finché diventi un fatto amministrativo. Il processo—ostacolato dal problema che il pubblico si fida sempre meno dei suoi governanti—avanza al rallentatore, ma è noto che “i mulini di Dio macinano lentamente ma di fino”.

Le ipotesi preliminari riguardano la creazione di improbabili “garanti della verità”, personaggi dall’indiscusso valore morale—andrebbe bene Madre Teresa di Calcutta, specialmente perché non è più tra noi—assistiti poi da una struttura burocratica “affidabile” e appoggiati dalle grandi testate giornalistiche nazionali. Fa molto “Caccia al ladro”, ma mettere un criminale per cacciarne un altro ha una lunga seppure non sempre onorevolissima tradizione. A volte ha perfino funzionato.

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