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Esteri
Primarie Dem,i dubbi sulla linea cinese di Biden. Sanders più duro con Pechino

Ormai sembra fatta: Joe Biden si avvia a vincere le primarie democratiche e sfidare Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa 2020 del prossimo 3 novembre. Un fatto che sembra passato un po' in secondo piano nel bel mezzo dell'emergenza coronavirus, ma che potrebbe decidere non solo la contesa elettorale negli States ma anche il posizionamento geopolitico di Washington e il suo rapporto con il principale rivale a livello globale, la Cina

Sì, perché non tutti i candidati democratici, almeno inizialmente, avevano le stesse posizioni rispetto a Pechino. Qualche settimana fa, SupChina ha pbblicato un report nel quale ha diviso tutti gli aspiranti presidenti in tre categorie: Panda Hugger, Panda Slugger e Panda Shrugger. Del primo, quello dei candidati con un rapporto più amichevole con Pechino, faceva parte Michael Bloomberg, la cui avventura è iniziata e si è conclusa in modo fallimentare nel giro di una notte, quella del Super Tuesday.

I due ultimi contendenti si dividono invece nel secondo e nel terzo gruppo, cioè quello dei più ostili alla Cina e quello di chi ha una posizione poco chiara in merito. SupChina non ha dubbi su Sanders: il senatore del Vermont è un Panda Slugger, iper critico sugli accordi commerciali con Pechino e non solo. Nel 2000, il candidato radical aveva votato contro la normalizzazione dei rapporti commerciali con la Cina, che hanno portato all'ingresso di Pechino nella World Trade Organization. Secondo Sanders, i rapporti con Pechino sono sbilanciati e hanno causato la perdita di "milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti". Tanto che non si è nemmeno opposto alla trade war lanciata da Trump, a patto che "sia usata in modo razionale e all'interno di una pià vasta strategia commerciale".

Non è tutto. In un'intervista di febbraio mandata in onda dalla Cbs, Sanders ha aperto al fatto che, con lui presidente, gli Stati Uniti potrebbero anche intervenire direttamente in caso di un'invasione militare di Taiwan da parte della Cina. Un tema particolarmente sensibile nei rapporti tra le due superpotenze. Taiwan, considerata una provincia ribelle dal governo di Pechino, ha da sempre rapporti molto solidi, seppur non ufficiali a livello diplomatico, con Washington, che si è sempre impegnata nella difesa dell'autonomia dell'isola. Anche su questa tematica, Sanders sembra che potrebbe proseguire la linea di Trump, qualora arrivasse alla Casa Bianca, considerando che l'attuale presidente ha sfidato Pechino sul tema di Taipei sin dall'inizio del suo primo mandato, a partire dalla famosa telefonata con la presidente Tsai Ing-wen per arrivare poi all'apertura di un'ambasciata de facto sull'isola e alla vendita di numerose partite militari.

Qualche dubbio in più sulle posizioni in materia di Cina per quanto riguarda Biden, inserito da SupChina nei Panda Shrugger, cioè tra coloro che non sembrano avere una linea unica a riguardo. I segnali in arrivo dall'ex vice di Obama appaiono contrastanti. Biden ha più volte detto che l'ascesa cinese può essere considerata "una seria minaccia, ma contenibile. Non abbiamo bisogno di essere troppo duri contro la Cina". Il candidato moderato dei Dem, ora in grande vantaggio sul rivale, è un profondo difensore del libero commercio e della globalizzazione. E' stato in Cina nel 2013 insieme al figlio Hunter, che ha fatto parte del board del fondo di investimento cinese BHR di Shanghai, prima di fare un passo indietro per non azzoppare la campagna del padre.

La linea di Biden sembra essersi fatta però più aggressiva nelle ultime settimane. E' ormai chiaro, infatti, che i rapporti con Pechino saranno uno dei temi principali della campagna presidenziale. Trump sarà molto aggressivo sul punto, forse ancor di più dopo la pandemia Covid-19 perché cercherà di attribuire tutte le responsabilità a Pechino per coprire le proprie. Non a caso continua a chiamare il coronavirus "virus cinese". In un clima da nuova guerra fredda, Biden non può passare per un amico della Cina. Ed ecco che allora sono partiti diversi attacchi sulla Belt and Road Initiative, sia in merito agli obiettivi geopolitici che alle conseguenze ambientali del colossale progetto di investimenti globale lanciato da Xi Jinping nel 2013.

Non solo. Nel dibattito del 25 febbraio, Biden ha fatto riferimentoalla questione degli uiguri e ha criticato il governo cinese per la gestione delle proteste di Hong Kong. L'insistenza sui "diritti umani" si è fatta molto più presente nei discorsi di Biden su Pechino. Cosa che ha sorpreso molti, visto che l'ex vice di Obama è sempre stato uno dei fautori della dottrina dell'engagement con Pechino.

In passato, Biden ha rifiutato l'idea di un automatismo di un ipotetico intervento militare Usa in difesa di Taiwan (dove si è recato in viaggio nel 2001), tanto che ha a suo tempo dichiarato: "Non entreremo in guerra per una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte di Taipei". Insomma, Biden è sempre stato un fautore dello status quo nei rapporti sullo Stretto. Eppure, quando Tsai ha vinto le recenti elezioni dell'11 gennaio, Biden è stato il primo tra i candidati alle primarie democratiche a congratularsi con la presidente di Taipei, invisa (per usare un eufemismo) a Pechino.

Chiunque sia lo sfidante di Trump, e chiunque sia il presidente dopo il voto del prossimo 3 novembre, la sensazione è che l'approccio degli Usa alla Cina possa cambiare nella forma, ma non nella sostanza.

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