Dopo trent’anni torna di attualità la fusione fredda, o meglio le LENR- reazioni nucleari a bassa energia. E’ notizia recente che l’Unione europea ha deciso di finanziare con 5,5 milioni di euro per il quadriennio 2021-2024 un progetto innovativo- CleanHME-, Clean Power from Hydrogen-Metal Systems. Approvato nel marzo scorso,. il progetto che ha preso il via a settembre, ha come obiettivo principale quello di sviluppare una nuova fonte di energia pulita, sicura, compatta ed efficiente basata su sistemi idrogeno-metallo, che potrebbe costituire una svolta sia per uso privato che per applicazioni industriali.
I partecipanti sono 10 paesi: Italia con il Politecnico di Torino, INFN, Frascati, Università di Siena e un’Azienda privata FUTUREON; Belgio, Germania, Francia, Svezia, Slovenia, Slovacchia, Stati Uniti , Canada e Polonia con l’Università di Stettino, che fa da coordinatore del gruppo. Proprio a Stettino infatti c’è uno dei laboratori di riferimento nel quale lavorerà come visiting professor Sergio Bartalucci, fisico nucleare associato dell’INFN e presidente di ASTRI- Associazione di Scienziati e Tecnologi per la Ricerca Italiana- , che da tempo si occupa di ricerche sulla fusione.
Come mai questa specie di ripensamento dopo che la comunità scientifica aveva deciso praticamente di abbandonare questo filone di ricerca? In verità non tutti avevano gettato la spugna, anche se le difficoltà presenti nell’esperimento di Fleischmann e Pons, misurare in modo confrontabile e ripetibile il calore in eccesso come prodotto della reazione deuterio palladio, l’instabilità del processo, e soprattutto l’incapacità di trovare una teoria condivisa adatta a spiegare il fenomeno, erano certamente apparse come un ostacolo al proseguimento delle ricerche. In realtà in Italia, all’INFN con Freancesco Celani, in Francia e negli Stati Uniti, ma soprattutto in Giappone con gli esperimenti supportati da Toyota e Mitsubishi si è continuato a lavorare su questo fenomeno riscuotendo successi alterni che hanno comunque permesso agli scienziati di non darsi per vinti.
Non è un caso se anche Google nel 2015, con 10 milioni di dollari, ha portato avanti ben tre esperimenti diversi con trenta ricercatori, esperimenti che, pur non soddisfacendo le aspettative, sono serviti tuttavia a indagare con nuovi strumenti e tecniche più sofisticate la reazione tra idrogeno e metalli a bassa temperatura, che costituisce ancora un settore inesplorato delle fisica dei materiali. Questa curiosità rinnovata è da attribuire anche al fatto che il fenomeno della fusione fredda non violava nessun principio cardine della fisica, come la conservazione dell’energia, e che quindi approfondendo lo studio sulla fisica dei materiali, affinando alcune procedure sperimentali, migliorando la sensibilità degli strumenti si poteva spiegare quel risultato che i due chimici avevano visto e pubblicato, in particolare l’evidenza di calore anomalo e di prodotti di reazioni nucleari che si era verificata.
A questo ripensamento di tipo sperimentale si accompagna anche una rivisitazione di alcuni principi base della meccanica quantistica che potrebbero aiutare a formulare un modello teorico soddisfacente. Insomma, dopo trent’anni si è arrivati alla conclusione che, malgrado l’elevato scetticismo, non si poteva buttare via tutto. Di più, lo studio delle reazioni tra idrogeno e metalli impatta in modo forte con altri comparti della scienza e della tecnologia, in particolare la possibilità di immagazzinamento dell’idrogeno in fase gassosa, che è uno dei punti cruciali per la transizione energetica dai combustibili fossili verso questo vettore energetico.
Per fare un esempio l’energia elettrica prodotta dagli impianti eolici e fotovoltaici, per sua natura intermittente, potrebbe essere impiegata per sviluppare idrogenouindi Q, e successivamente immagazzinarlo per utilizzarlo al bisogno. Ecco quindi un ottimo motivo per approfondire lo studio delle reazioni tra idrogeno e metalli.
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