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Sanremo e il "circo" delle major discografiche. Tutto quello che sai è falso
Sanremo, Marco Mengoni e Amadeus

Sanremo: il Festival che ingessa il futuro musicale italiano. Chi comanda e perché

Il Festival di Sanremo è lo specchio di un Paese vecchio e logoro che ha difficoltà ad adottare cambiamenti, come un gigante addormentato su un letto di pietra. Dietro le luci del palcoscenico si nascondono sempre le stesse dinamiche, monopoli ed influenze economiche che spesso si intrecciano con meccanismi opachi e discutibili, un sistema mediatico ingessato e un'industria dell’intrattenimento tv ancora più fermo.  Sanremo, non è solo l'evento musicale televisivo più seguito dell’anno, è soprattutto un grande business, guidato dai soldi pubblici, visto che la RAI lo organizza, ma dove la strategia culturale dello Stato si perde in interessi privati e il talento artistico diventa un fattore meno che rilevante.

Sanremo, come accade da molti anni, è il terreno di gioco esclusivo delle major discografiche. Tutto è nelle mani di tre colossi che muovono l’80% del mercato: Universal Music Group, Sony Music Entertainment e Warner Music Group. Secondo dati recenti, l'Italia è tra il decimo e quindicesimo mercato discografico al mondo. Le tre sorelle, con annesse etichette minori affiliate, si dividono i trenta cantanti che si esibiscono anche ques’anno. Non esiste spazio per le etichette indipendenti. Ogni anno si sa con largo anticipo chi vincerà Sanremo perché è scritto nelle stelle, direbbe il poeta.  Nel 2021 hanno vinto i Måneskin (Sony), nel 2022 il duo Mahmood-Blanco (Universal), nel 2023 Marco Mengoni (Sony). Quest’anno è il turno della Warner che onnivora presenta la stragrande maggioranza degli artisti in gara... e che gara. 

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Cosa muove economicamente Sanremo

Sanremo costa ogni anno una cifra che oscilla intorno ai 18 milioni di euro, milione più milione meno, per un mercato discografico annuale nazionale di 371 milioni. Perché Sanremo determina gran parte di tutto ciò che si produrrà di rilevante nell’intero mercato musicale dell'anno, eventi, esibizioni, concerti, in attesa del Sanremo prossimo e chi se ne mette in tasca gli introiti. Tutto il resto, se escludiamo alcuni colossi dell’intrattenimento musicale, è una nicchia. Oggi se un musicista vuole fare della musica e vuole pubblicarla a chi la fa ascoltare realmente? Non si sa.

Il processo di selezione degli artisti e delle canzoni solleva sempre più dubbi e così il blocco del mercato musicale. La scelta dei brani del Festival viene decisa dal direttore artistico. A svolgere questo ruolo non ci sono più il genio di un Sergio Bardotti (l’autore, solo per citarne alcune, di “Piazza Grande” cantata da Lucio Dalla, “L’amico è” cantata da Dario Baldanbembo, “Ti lascerò” del duo Oxa -Leali) che lo copriva nelle edizioni di Pippo Baudo, né di un Adriano Aragozzini, che saprebbero dire no a una proposta inaccettabile, ma Amadeus che fa contemporaneamente da conduttore e direttore. 

Perché le canzoni di Sanremo sembrano tutte simili, si chiedono i lettori, e nessuna resta impressa come accadeva un tempo? Ce lo vedreste oggi un Ivano Fossati o qualsiasi altro del suo calibro accettare il livello musicale che si sente? Un successo a Sanremo può significare un fatturato di oltre 10 milioni di euro per un singolo brano, una cifra che evidenzia il peso economico dell'evento nell'industria musicale. Intro, strofa, ritornello, bridge, finale. Diciamo che, anche mischiando le parti, gli sviluppi armonici, le soluzioni sonore, i temi trattati sono, ogni anno che passa, più triti di un disco rotto, è proprio il caso di dirlo. 

Forse non restano impresse perché le mani che ci lavorano sono di pochissimi autori?  Le major si affidano solo ad alcuni, senza dubbio bravissimi, ma sempre gli stessi, anche quest’anno. Davide Petrella per alcuni pezzi della Universal, Paolo Antonacci, figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi, che da indipendente firma diversi brani tra Universal e Warner, Alfredo Rapetti Mogol, figlio di Giulio Rapetti Mogol, per certe canzoni della Universal e Sony, il sempiterno Dario Faini, detto Dardust, che firma per tutte la produzioni, anche se quest’anno poche canzoni e pochissimi altri.

La canzone a Sanremo è un pretesto. Perché ci sono i vestiti più stravaganti

Una nuova proposta musicale può approdare a Sanremo? In pratica no, se non sei già inserito in alcuni circuiti, molto chiusi ed elitari. La canzone e la musica sono solo un pretesto. I talenti ci sono, certo, anche a Sanremo ma il peso del mercato schiaccia tutto. Le strategie di promozione non si limitano alla sola musica. Le radio, con le interviste e la gestione degli spazi promozionali, gli sponsor, che cercano di associare i loro marchi ai volti più popolari, giocano un ruolo cruciale nell'economia della kermesse, legandosi all’artista anche tramite accordi con le casa discografiche. Questa intersezione tra musica, media e marketing crea un ecosistema dove la strategia culturale è una sola: business.

Il rimborso spese degli artisti che cantano è di 50.000 euro ma spesso niente resta nelle loro mani perché finisce per pagare le spese del “circo” che gli gira intorno. Per questo motivo, dai vestiti stravaganti e particolari agli strumenti musicali, dal beverage alle scarpe, borse, persino mobili, auto, moto, fiori, qualsiasi cosa, dallo skateboard alla bicicletta, sono un’occasione per trovare sponsor.

Questi costi, insieme ai cachet degli artisti, agli ospiti e ai presentatori superpagati e alle spese di produzione, sollevano domande sulle strategie pubbliche della RAI e sull'equità nella distribuzione delle risorse all'interno del sistema musicale e culturale italiano. Non un trampolino di lancio equo e accessibile per i talenti musicali, ma un sistema di comparse utilizzate dalle potenti major discografiche che giostrano sulle politiche dello Stato.






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