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Una parte del canone Rai alle tv locali

di Paolo Pirovano*
Le TV locali stanno vivendo il peggior periodo dalla loro storia. Chiusure, licenziamenti, cassa integrazione, contratti di solidarietà ormai sono una costante che non riguarda solo un’area geografica ma accomuna tutta l’Italia. Un dato rende preoccupante questa crisi. Gli ascolti sono in crescita ma i fatturati diminuiscono. Non è dunque una questione legata alla qualità dei contenuti o al cambiamento delle abitudini dei telespettatori. Il colpo di grazia lo ha dato il passaggio al digitale terrestre (ogni televisione locale per poter trasmettere con quel segnale e aggiornare gli impianti ha speso in media 6 milioni di euro). La congiuntura economica ha fatto il resto.
La torta della pubblicità è diventata più piccola ma i commensali sono aumentati: basta guardare il numero di canali disponibili sul Dtt per comprendere ciò di cui stiamo parlando. I tagli delle «misure a sostegno della emittenza locale» sono entrati a piedi uniti dando, in alcuni ambiti più a rischio il colpo di grazia. I ricavi pubblicitari delle tv locali, che secondo uno studio di Confindustria Radio tv, erano pari a 481 milioni di euro nel 2012, a fine 2014 sono calati a 400 milioni.
L'emittenza radiotelevisiva "areale" (senza escludere carta stampa e internet) costituisce un patrimonio del territorio in cui opera, perché interagisce con cittadini ed enti locali, dà posti di lavoro (diecimila in tutta Italia) e offre a piccoli e medi imprenditori di farsi pubblicità a costi contenuti, cosa che sarebbe impossibile sui network nazionali.
Per rilanciare il comparto servirebbero politiche specifiche e non pannicelli caldi: interventi mirati come sgravi fiscali alle aziende del settore e, soprattutto, una decisione importante che riguarda la Rai, condivisa anche da Pierfrancesco Gallizzi, vicepresidente dell'Associazione lombarda giornalisti e consigliere nazionale della Federazione nazionale della stampa italiana: visto che la Rai continua a raccogliere pubblicità e incassa il canone (istituito con un Regio decreto del 1938) si potrebbe distribuire una percentuale di questo (a maggior ragione se riscosso con il nuovo sistema ipotizzato dal governo) alle radio e tv locali che rispondono a determinati requisiti (numero di assunti, diffusione del segnale, palinsesti e trasmissioni giornalistiche autoprodotte). Spesso queste piccole realtà, pur senza esserlo per definizione, svolgono infatti un “servizio pubblico” né più né meno della Rai.
*Segretario nazionale dell'Ordine dei Giornalisti