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Politica
Conte, bene il cattolicesimo democratico. Ma non dimentichiamo De Gasperi

Di Benedetto Ippolito
(Docente di Storia della Filosofia Medievale, Università di Roma Tre)
 

Tra i contributi intellettuali dimenticati, offerti nel secolo scorso alla politica italiana, vi è certamente l’apporto dato dai cattolici. Non fosse altro per questo l’intervento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte di qualche giorno fa ad Avellino, in occasione della commemorazione di Fiorentino Sullo – preziosamente riproposto da Affari Italiani – costituisce di per sé un atto di grande importanza culturale.

Il premier, in effetti, ha ripercorso puntualmente le tappe salienti che hanno permesso, dopo il ventennio fascista, l’affermarsi di una visione dell’uomo, del mondo e della società, confluita, attraverso i lavori della Costituente, nella redazione finale della nostra Costituzione.

La figura di Sullo ha dato occasione di ricordare il meridionalismo cattolico, un contributo assai importante alla definizione delle politiche nazionali, ma anche il confluire fecondo delle istanze del Magistero sociale della Chiesa, avviato con l’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII (1891), nella concreta codificazione complessiva dei valori che definiscono la Repubblica Italiana (1948).

Conte ha tratteggiato alcuni punti concreti e salienti che sono tatuati nel corpo della nostra teoria dello Stato: cominciando dalla centralità del lavoro, voluta principalmente da Amintore Fanfani, passando alla funzione sussidiaria della nazione rispetto alla famiglia e alla persona, tema assai caro a Giorgio La Pira.

Il presidente del Consiglio ha inoltre evidenziato l’alternativa, che i cattolici riuscirono a far penetrare nella Carta, tra la visione personalista e le opposte concezioni organicistiche e individualistiche dello Stato, rispettivamente provenienti dal retaggio socialista e liberale. Soprattutto Pio XII sentiva come particolarmente urgente che la neonata Repubblica fosse equilibrata e ispirata alla tradizione culturale e religiosa della nostra comunità, uscita da un ventennio di radicalizzazione nazionalista, a cui si doveva evitare l’incubo di cadere in una nuova e probabilmente persino peggiore forma di totalitarismo materialista.

Ricordare quindi questi ed altri avvenimenti che contraddistinsero tale fase storica eccezionale, e poi quella immediatamente successiva del Dopoguerra, senza dubbio ha un grande rilievo.

Bisogna tuttavia anche considerare, al di là dello scontato riferimento ai “dioscuri del neotomismo francese”, come amava definirli Gustavo Bontadini, ossia Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, alcuni limiti di quella impostazione progressista che a distanza di settant’anni sono affiorati in modo dirompente.

Tanto per cominciare allora furono escluse dal ricchissimo e variegato ragionare cattolico novecentesco altri riferimenti intellettuali, i quali, invece, attualmente sarebbe utile non soltanto riprendere ma utilizzare per correggere le anomalie che si sono verificate nel frattempo sia a livello politologico e sia a livello istituzionale.

Basti considerare, ad esempio, la rimozione pressoché completa dell’articolata e profonda riflessione di Luigi Sturzo, tenuto ai margini soprattutto a causa del primato che allora guadagnarono nella DC, dal punto di vista filosofico ed economico, gli epigoni di Giuseppe Dossetti. Durante la prima segreteria Fanfani, il quale genialmente negli anni ’50 modellò il partito sulla base del paradigma organizzativo del PCI, Sturzo criticò aspramente lo statalismo dirigista del centralismo democristiano, il quale finiva per portare, come De Gasperi aveva preconizzato, i cattolici democratici sempre più a sinistra e lontani dalla propria identità.

Non mancarono allora tante critiche internazionali, non soltanto della Santa Sede, provenienti da altre fonti del cattolicesimo. Pensiamo a Gabriel Marcel, ma anche e soprattutto a Henri Massis, a Jean Madiran o a Paul Sérant. In sostanza, la preminenza di un certo orientamento “democratico” del cattolicesimo italiano finì per emarginare sensibilità conservatrici che altrove avevano una grande presa intellettuale tra i cattolici, ad esempio nel mondo nordamericano. È vero che anche durante gli anni ’60, dominati dal centro-sinistra moroteo, l’anticomunismo non fu mai in discussione nel nostro Paese, tuttavia la mancanza di una vera alternativa conservatrice al progressismo fu determinata proprio dall’egemonia assoluta del dossettismo evocato da Conte.

Il nodo dolente fu sollevato con precisione in Francia da Etienne Gilson, negando risolutamente di aprire un dialogo con il comunista Roger Garaudi, da Arturo Carlo Jemolo e da Augusto Del Noce in Italia, ma anche, più recentemente, dall’irriverente e indisciplinato Gianni Baget Bozzo.

La fiducia che la democrazia fosse da intendersi come pura e semplice realizzazione o materializzazione concreta dello Stato Costituzionale ha finito per espellere la nazione come comunità reale dall’ambito della sovranità sostanziale della politica, creando la premessa per quella partitocrazia che ha provocato il predominio della cultura di sinistra, nonché la corruzione e la morte della Prima Repubblica. 

Il problema, dunque, non è retoricamente riprendere temi di ottima ascendenza cattolica e democratica, come Conte sembra fare, ma capire perché, malgrado tale presenza culturale indubbiamente maggioritaria nel Paese, la nostra nazione si è progressivamente scristianizzata, adottando leggi totalmente incompatibili con l’autentica visione antropologica e sociale della Chiesa. Il riferimento va al divorzio e all’aborto, ma anche alla inefficacia che l’articolo 29 della nostra Costituzione, indicante la famiglia naturale come perno della società, ha avuto rispetto alle opposte rivendicazioni laiciste di diritti civili relativisti, sostanzialmente incompatibili con il Cristianesimo.

Nello spartiacque odierno, dominato dalla globalizzazione, dall’immigrazione, dall’emergere di nuove pulsioni razziste pericolose e intollerabili, la questione non è essere cattolici clericali o democratici, ma comprendere l’importanza che le particolari tradizioni nazionali hanno nel mantenimento della fede e nella concreta legittimazione della volontà popolare all’interno dei singoli Stati democratici, nel complesso quadro della comunità europea ed internazionale.

I cattolici devono guardare, insomma, non soltanto a quella stagione straordinaria, ossia all’umanesimo progressista ed integrale di Maritain, ma al contributo che l’elaborazione della filosofia di Tommaso d’Aquino è in grado di offrire oggi attraverso pensatori del calibro di Joseph Pieper, di Alasdair MacIntyre o Robert Spaemann, i quali non hanno fatto sconti all’imperante secolarismo, escludendo strani compromessi filosofici con visioni esplicitamente anticristiane.

In definitiva, Benedetto XVI e Papa Francesco, in continuità con i loro predecessori, ci offrono una dottrina sociale della Chiesa vera ed immutabile che oggi attende di essere animata da una cultura cattolica laica, seriamente e orgogliosamente formata alla teologia, alla filosofia razionale e alla politica conservatrice. In fin dei conti, l’umanesimo vero, che è e resta il solo ed unico umanesimo cristiano, non può e non potrà che essere quello che sempre è stato: una filosofia politica, eretta su verità etiche e metafisiche chiare e definite, che abbia al centro la natura umana della singola persona, chiamata ad essere santa nella concreta e specifica tradizione familiare e nazionale in cui è inserita e di cui è erede.

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