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Politica
Giorgio Napolitano: luci ed ombre di un Presidente
Giorgio Napolitano

Giorgio Napolitano: luci ed ombre di un Presidente

La scomparsa dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si porta dietro, inevitabilmente, un mix di luci ed ombre che sono indissolubilmente legate tra loro e sarà compito degli storici futuri analizzarne le conseguenze sulla vita civile del Paese.

Con Napolitano scompare l’”ultimo dei comunisti” ma anche –e forse soprattutto- “il primo dei riformisti” o meglio dei “miglioristi”, come venivano chiamati allora.

Scompare un uomo dello scorso secolo, con il suo portato di ideologie ma anche di compostezza e autorità istituzionale, qualcuno lo ha definito “un signore della politica”.

Il primo Presidente della Repubblica ad avere due mandati consecutivi, prassi che fu poi seguita anche da Sergio Mattarella.

Nasce a Napoli nel 1925 nell’ambiente dell’alta borghesia, la madre è nobile, e il padre è un avvocato liberale.

Si diploma al liceo classico durante la guerra e nel 1942 inizia l’Università a Napoli, alla Federico II.

Non si sottrare allo “spirito del tempo” (come Pietro Ingrao) e come molti comunisti fa parte del Guf, il Gruppo universitario fascista. La passione per il teatro domina i suoi interessi culturali e ottiene anche piccole parti.

Nel 1944 è già in contatto con i comunisti partenopei e nel 1945 aderisce formalmente al Partito Comunista Italiano.

Nel 1947 si laurea in giurisprudenza con una tesi dal titolo significativo di “Il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno dopo l'Unità e la legge speciale per Napoli del 1904”.

Nel 1953 è Deputato e da allora sarà sempre riconfermato fino al 1996.

Si occupa del Sud per il Comitato Centrale del PCI di cui è membro grazie alla precisa volontà del segretario Palmiro Togliatti che stava svolgendo una politica di rinnovamento della classe dirigente.

Nel 1956 si svolgono i fatti d’Ungheria e il PCI e soprattutto l’Unità si schierano apertamente con i sovietici che avevano invaso Budapest per sedare le rivolte operaie.

Il giornale di partito arriverà a definire gli insorti come “teppisti e spregevoli provocatori”.

Napolitano in quel frangente è completamente sulla linea di Togliatti, elogiando l’intervento di repressione sovietico e attaccando con ferocia chi nel partito dissentiva.

Questo lo rafforzò enormemente nel PCI grazie alla fiducia del Migliore.

Da questa posizione dura e pura, anzi intransigente, partirà tuttavia un percorso evolutivo che si concretizzerà dopo la scomparsa di Togliatti e dello stalinismo.

Lo troviamo infatti schierato con i moderati riformisti che guardano con attenzione al Partito Socialista Italiano.

Questa vocazione si concretizzerà poi nella creazione di una “destra” interna al PCI alla fine degli anni ’60, segnata dalla influenza di Giorgio Amendola e dai valori del socialismo democratico.

Si passa dalla contrapposizione al capitalismo alla sua riforma, tradendo il dettato marxista, rivelandosi inadeguato.

Nel contempo Napolitano si adopera per aumentare il “tasso di europeismo” del PCI in un momento in cui-anni ’70- la contrapposizione tra i due blocchi si fa aspra. È il periodo della guerra fredda e anche Berlinguer dirà significativamente poi di sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello Nato”.

Attacca il segretario comunista da “destra” contestandogli una opposizione ancora troppo veemente al capitalismo, guardando con interesse al PSI di Bettino Craxi con cui comincia a intrattenere un dialogo politico e umano.

Parla di” riformismo europeo” preoccupando ulteriormente Mosca di cui era stato in passato il principale referente in Italia. Nel partito guida l’importante Commissione Esteri che gli permette di dichiarare la piena “solidarietà agli Usa e la Nato”.

Una dichiarazione che può permettersi grazie al contemporaneo presentarsi sulla scena politica mondiale di Michail Gorbaciov che a poco avrebbe distrutto l’Unione Sovietica ed avviato alla Caduta del Muro di Berlino. Tuttavia nel 1975 Henry Kissinger, allora segretario di Stato nella amministrazione di Gerald Ford (subentrato a Richard Nixon), gli negò il visto per tenere delle conferenze in alcune prestigiose università Usa -tra cui Yale, Harvard e Princeton- che lo avevano invitato.

I documenti ufficiali -con una nota personale dell’ambasciatore Usa John Volpe- rivelarono in seguito che la concessione del visto “sarebbe stata interpretata come una sorta di presunta indicazione del fatto che il governo americano ha accettato le credenziali democratiche del PCI”.

Nel 1978, grazie al nuovo Presidente democratico Jimmy Carter, riuscì invece a raggiungere gli States in una visita ufficiale, primo dirigente del PCI a compiere l’impresa, complice il nuovo governo di Giulio Andreotti che aveva un appoggio esterno a tema del PCI. Il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, come noto, impedì il voto di fiducia.

Nel 1992 comincia a raccogliere i frutti del suo atlantismo divenendo Presidente della Camera, sostituendo Oscar Luigi Scalfaro che a sua volta diviene Presidente della Repubblica.

Nel 1993 un episodio emblematico: la Guardia di Finanza, in piena Tangentopoli, cerca di entrare alla Camera per ottenere dei documenti e cioè i bilanci dei partiti. Lo richiede un magistrato simbolo di quel periodo, Gherardo Colombo. Napolitano gli oppone l’immunità di sede che garantisce l’inviolabilità del Parlamento alla forza pubblica.

Nel 1993 modificò il regolamento della Camera per permettere il voto palese sulle autorizzazioni a procedere, norma che prima aveva salvato grazie al voto segreto Bettino Craxi, segnando la rottura con il leader socialista.

Craxi lo ricambiò con un celebre siluro in un altrettanto celebre discorso:

«come credere che il Presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli Esteri del PCI e aveva rapporti con tutta la nomenklatura comunista dell'Est a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del PCI e i paesi dell'Est? Non se n'è mai accorto?”.

Fu Ministro dell’Interno nel governo Prodi del 1996, diventando il primo ex comunista a ricoprire quel ruolo strategico di controllo dell’ordine pubblico.

Il primo mandato da Presidente della Repubblica lo ottiene il 10 maggio 2006, alla quarta votazione.

Il secondo mandato è del 20 aprile 2013, conseguente allo stallo dopo le elezioni politiche. Il 14 gennaio 2015 si dimette e rientra come Senatore a vita in Parlamento e sarà poi sostituito da Sergio Mattarella.

Da Presidente della Repubblica Napolitano ha inaugurato una dimensione dirigista che in precedenza avevano mostrato solo i democristiani Scalfaro e Cossiga. Non per niente fu chiamato “Re Giorgio” e rappresentato sulle copertine con tanto di corona e scettro.

Ricordiamo anche il lungo conflitto con la Procura di Palermo che segnerà un inedito istituzionale con un conflitto tra i poteri dello Stato.

In definitiva quale è il giudizio su Napolitano? La destra lo vede con il fumo negli occhi per il suo passato dirigista e per il suo essere rimasto sostanzialmente un comunista al di là di certe scelte interne al suo partito e soprattutto a livello istituzionale.

Giorgia Meloni -che ieri ha vergato uno stringato comunicato di condoglianze- lo definì “un traditore”.

Francesco Storace fu accusato di “vilipendio al Capo dello Stato” e fu poi assolto.

Si ricorda il suo iniziale ottimo rapporto con Silvio Berlusconi poi naufragato quando lo sostituì con Mario Monti per arginare lo spread con cui gli “atlantici” ricordarono all’Italia chi comanda veramente.

A sinistra è considerato invece una icona. Fu indubbiamente uno scaltro giocatore ai limiti dell’opportunismo quando passò dalla linea filo - sovietica, di estrema sinistra, a quella atlantica di destra dopo la scomparsa di Togliatti, cosa che Craxi non mancò di contestargli.

Capì prima degli altri che il comunismo era finito ed anticipò la svolta di Gorbaciov. Fu quindi un socialista di fatto che però non volle mai riconoscere al PSI la sua primogenitura, peccando indubbiamente di hybris.

Se politicamente è stato spregiudicato istituzionalmente è stato un Presidente molto attento alla prassi anche a costo di divenire puntiglioso nella cosiddetta trattativa Stato – Mafia, sollevata dalla Procura di Palermo.

In una epoca di disgregazione e sfarinamento istituzionale ha tenuto saldo il timone del Quirinale anche a costo di qualche forzatura istituzionale, ma era poi quello che il popolo chiedeva in un periodo di sconvolgimenti social epocali in cui una figura forte di riferimento è essenziale per garantire la stabilità.

Fu dunque un “Presidente alfa”, lo potremmo definire con terminologia moderna.

Resta una figura di altri tempi in un mondo completamente cambiato in quasi un secolo di vita.

Le sue luci e le sue ombre si alternano in un continuo ciclico e solo l’analisi storica successiva potrà restituire un quadro completo del suo bilancio politico e soprattutto istituzionale, ma anche umano.

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