Politica
I nuovi quarantamila e la rivoluzione della "normalità", ecco perchè il ceto medio silenzioso che tiene in piedi l’Italia non si fida più della politica
La forza silenziosa del ceto medio che mantiene l’Italia in piedi senza più fidarsi della politica. Analisi

Il commento
Torino, 1980. Quarantamila colletti bianchi attraversano la città in silenzio. Non erano militanti, non erano capi. Erano lavoratori, impiegati, tecnici, quadri che avevano deciso di dire basta a un sistema bloccato, di rivendicare dignità e ascolto. Quella marcia segnò una svolta nella storia italiana: per la prima volta, una maggioranza silenziosa si era messa in cammino.
Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, quella stessa maggioranza non marcia più. Non perché sia scomparsa, ma perché ha smesso di credere che serva a qualcosa. È rimasta a casa, come resta a casa quando si vota, quando si discute, quando si sogna un cambiamento. È la metà del Paese che non partecipa più. La chiamiamo astensione, ma è una forma di resa collettiva, un abbandono lento e dignitoso da parte di chi tiene in piedi la vita quotidiana.
I nuovi quarantamila non si vedono, ma ci sono. Non hanno un colore politico, ma un profilo preciso. Sono l’impiegato che paga le tasse e poi paga di nuovo per avere un servizio sanitario decente, il professionista che lavora dodici ore al giorno e si sente un nemico dello Stato, l’artigiano che assume un ragazzo e deve giustificarsi come se stesse violando una regola, il piccolo imprenditore che paga mutui, bollette, assicurazioni e scopre che la libertà d’impresa è diventata un lusso, l’operaio specializzato che tiene in piedi la fabbrica ma vede lo stipendio alleggerirsi ogni mese.
È il ceto medio, il motore dell’Italia, quello che produce, risparmia, si indebita, investe, educa i figli e assiste i genitori, ma che non trova più una casa politica, una voce, una rappresentanza. La trappola in cui vive è il doppio costo della sopravvivenza: pagare due volte per le stesse cose. Pagare le tasse per un servizio pubblico che non arriva e poi pagare di nuovo per sostituirlo con un privato.
È la sanità che costa più di prima, le liste d’attesa infinite e il medico che riceve solo a pagamento. È la scuola che perde qualità e obbliga a pagare ripetizioni, mensa, trasporti, contributi “volontari”. È la sicurezza che si affida sempre più alla vigilanza privata, la giustizia che diventa un lusso per chi può permettersi un buon avvocato, la burocrazia che pretende documenti per ottenere ciò che spetta di diritto. Tutto costa due volte: una per dovere, una per sopravvivere.
E intanto il lavoro non cresce, i risparmi si erodono, la casa — che per generazioni è stata il simbolo della conquista sociale — torna a essere un bene da tassare. La sfiducia cresce silenziosa, senza clamore, ma profonda. Non è rabbia: è stanchezza. È quel sentimento sottile che corrode la fiducia civica e rende la democrazia più fragile, perché nessuno vuole più credere in un meccanismo che sembra non ricambiare.
Il paradosso è che la maggioranza degli italiani non è contro lo Stato, ma non si sente più dentro lo Stato. Si percepisce come un utente, non come un cittadino. Ha la sensazione di dover continuamente dimostrare la propria onestà, di dover giustificare la propria normalità, di essere ospite in casa propria. E così, quando arriva il giorno del voto, molti restano semplicemente a casa. Non per disinteresse, ma per disillusione. Chi va alle urne lo fa come chi va dal dentista: perché bisogna, non perché ci crede davvero.
Eppure, questa Italia silenziosa è quella che ancora tiene in piedi il Paese. È quella che lavora, produce, insegna, cura, studia, si sacrifica. È quella che non evade, non urla, non pretende, ma continua a pagare tutto. È l’Italia invisibile, quella che non riempie le piazze ma riempie gli ospedali, le scuole, gli uffici, le botteghe, le fabbriche, le case. È l’Italia che tiene insieme le generazioni e si sente ogni giorno più sola.
Se oggi i nuovi quarantamila potessero scrivere un manifesto, non parlerebbero di ideologie, ma di giustizia. Direbbero che vogliono essere rispettati, non sfruttati; che meritano fiducia, non sospetto; che pretendono dallo Stato la stessa efficienza che lo Stato pretende da loro; che non chiedono assistenza, ma riconoscimento. Vorrebbero quattro cose semplici: merito al posto dell’appartenenza, fiducia al posto della burocrazia, servizi pubblici accessibili al posto delle promesse, tasse giuste al posto delle punizioni.
Merito, perché un Paese che non premia il talento diventa vecchio, lento, ingiusto. Fiducia, perché ogni modulo in meno è un giorno di vita restituito. Sanità e scuola pubblica, perché non è accettabile scegliere tra curarsi o pagare l’affitto, tra educare un figlio o mantenere un genitore. E tasse giuste, perché chi lavora non può essere il bancomat della spesa pubblica.
Non serve un partito, serve un risveglio. Non un nuovo slogan, ma una nuova fiducia reciproca. La marcia dei quarantamila del 1980 cambiò un’epoca perché mostrò che la normalità aveva ancora coraggio. Oggi quella normalità è ferita, ma non sconfitta. Non scenderà in piazza. O forse sì. Se troverà chi può, chi sa, chi ha il coraggio e la responsabilità di renderle conto, potrà tornare protagonista. E sarà una rivoluzione senza essere una rivoluzione, senza bruciare cassonetti, senza rompere vetrine. Sarà una rivoluzione della normalità: quella delle persone normali.
