Lo sguardo libero
Il caso Garofani–Mattarella–Meloni: la democrazia si indebolisce quando si smette di rispettarsi

Francesco Saverio Garofani
C’è qualcosa che inquieta nel caso che ha coinvolto Francesco Saverio Garofani, consigliere del Quirinale, e che – suo malgrado – ha toccato il presidente Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni. L’idea stessa che un consigliere del Colle, in conversazioni private o pubbliche poco importa, possa evocare “scosse provvidenziali” o manovre politiche per frenare la leader di governo è un inciampo istituzionale. La Presidenza della Repubblica è l’arbitro del sistema: l’arbitro non gioca, non suggerisce schemi, non indica cambi di campo.
Va riconosciuto, senza ipocrisie, che Mattarella è quasi sempre condivisibile, per equilibrio, sobrietà, misura. Non usa la parola per dividere, né piega le istituzioni alla polemica. Per questo la sua voce è percepita come un punto fermo nella tempesta (naturalmente non è infallibile, come quando disse che a Gaza Israele mostrava “l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente”).
Mattarella resta un presidio della nostra vita costituzionale. Ed è qui che si impone un principio spesso dimenticato: la Repubblica appartiene a chi la sostiene, a chi rispetta le sue regole, a chi paga le tasse – come ricordò lo stesso Presidente nel discorso di fine anno del 31 dicembre 2022, con una frase memorabile: “la Repubblica è di chi paga le tasse”. Appartiene a chi permette allo Stato di funzionare, non a chi tenta di piegarlo ai propri risentimenti o ai propri calcoli personali o di fazione. È un concetto antico: la democrazia vive di responsabilità.
Il problema è più vasto: riguarda la selezione della classe dirigente. Da anni il Parlamento presenta una percentuale di laureati sorprendentemente bassa. Troppo spesso si scelgono yes-men, figure che devono obbedire invece di rappresentare. Basta partecipare a un qualsiasi evento di partito per accorgersene: povertà culturale in senso lato, povertà lessicale, superficialità nei ragionamenti, cultura politica ai minimi storici. Eppure, la politica dovrebbe essere la forma più alta dell’esistenza civile. Un luogo di merito, non di mediocrità.
Anche Giorgia Meloni non può pretendere di sfilarsi indenne da questo clima. La scena del Palapartenope di Napoli – con la presidente del Consiglio che si lascia trascinare dall’euforia del pubblico e finisce per saltare e cantare “Chi non salta comunista è” – rivela un eccesso comprensibile sul piano umano, meno su quello istituzionale. Esiste un limite sottile oltre il quale la goliardia, pur tollerabile in un contesto di entusiasmo pubblico, rischia di sconfinare in un comportamento poco adatto a un ruolo istituzionale.
È altrettanto vero che una parte dell’opposizione mediatica contribuisce a inasprire il clima, trasformando la critica in ostilità personale. Non si contano più le trasmissioni in cui Giorgia Meloni viene attaccata non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta. Il rischio è che l’informazione diventi una caricatura della critica politica. Un tono che finisce per ottenere l’effetto opposto: rafforzare Meloni presso una minoranza moderata che si sente respinta da un certo moralismo televisivo. Invece di convincere, alcuni commentatori parlano solo a sé stessi e ai già convinti.
A rendere il quadro più fragile contribuisce anche ciò che accade altrove. Donald Trump, con la sua concezione muscolare del potere e la tendenza a personalizzare ogni istituzione, rischia di indebolire proprio quella cultura democratica che ha reso grande l’Occidente. La democrazia non è un automatismo, è un’educazione. Ora che si avvicina il momento di scegliere il prossimo Presidente della Repubblica – con ogni probabilità il primo espresso dal centrodestra nella storia recente – sarebbe saggio fare tesoro del caso Garofani–Mattarella–Meloni.
