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Palazzi & potere
Il referendum visto da Bruxelles. Intervista a Massimiliano Salini (FI)

Si avvicina il referendum del 4 dicembre e sale la tensione, anche a livello europeo, per il possibile esito del voto (e per le sue conseguenze). Ma quali sono gli umori che si respirano nei corridoi di Bruxelles? Ne parla ad Affari Italiani Massimiliano Salini, europarlamentare di Forza Italia (gruppo Ppe), fermamente schierato per il No alla riforma costituzionale. Componente delle commissioni Industria, Trasporti e caso Dieselgate, Salini si occupa da sempre di temi di grande interesse per le aziende italiane, grandi, medie e piccole, tanto da essere stato autore di un recente emendamento al bilancio dell’Unione europea per l’avvio di un progetto pilota per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese.


Onorevole Salini, molti esponenti del governo e della maggioranza hanno detto o lasciato intendere che le istituzioni europee sarebbero a favore del Sì al referendum. E’ così? E’ vero che questa riforma costituzionale ‘ce la chiede l’Europa’?

«La sensazione più diffusa all’interno del Parlamento e delle istituzioni europee è che la posizione politica di Matteo Renzi in Italia e in Europa si sta, giorno dopo giorno, sempre più indebolendo. I numeri poco incoraggianti legati all’economia, la situazione delle banche, il debito pubblico crescente e gli scarsi risultati ottenuti con alcune riforme, come quella sul lavoro o sulla scuola, hanno creato nei corridoi del Parlamento europeo l’idea che una battuta d’arresto per il presidente del Consiglio sul referendum getterebbe il Paese in una condizione di grande difficoltà. Da una parte, quindi, c’è chi si esprime a favore del referendum solo perché teme che in questo momento Renzi non sia in grado di reggere un ulteriore contraccolpo. Dall’altra parte, però, c’è anche qualcuno che si è premurato di guardare i contenuti della riforma costituzionale proposta. E chi ha guardato nel merito la riforma ha colto quell’elemento che tra tutti dà più fastidio in prospettiva europea, cioè il passo indietro rispetto al percorso federalista e regionalista che caratterizza l’Italia e che la riforma abbatte in maniera drammatica. Per l’Unione europea, che ha fatto del principio di sussidiarietà il suo pilastro fondativo, un Paese che uccide la sussidiarietà in modo così volgare (con norme scritte male, equivoche e che aumenteranno i conflitti di fronte alla Corte costituzionale) rappresenta una grande delusione».

La riforma muta profondamente il riparto di competenze e poteri tra Stato e Regioni. Più in particolare cos’è che la spinge a valutare negativamente queste modifiche?

«Il rapporto tra Stato e regioni cambia su due fronti. Nel primo si tenta di istituire una nuova seconda Camera più legata ai territori e non più semplicemente eletta su base regionale come l’attuale Senato. Nelle intenzioni dei riformatori questa dovrebbe diventare una Camera dei territori, ma non è così, intanto perché sarà composta da senatori che, invece di riprodurre il valore delle autonomie locali, saranno espressione dei meri equilibri politico-partitici, e poi perché su partite decisive per l’interesse dei territori, come l’utilizzo delle risorse economiche, il Senato non sarà chiamato a pronunciarsi e quindi non potrà intervenire a tutela delle autonomie territoriali.

Il secondo fronte è composto dalle modifiche al titolo V della Costituzione. Queste rappresentano un passo indietro di vent’anni. Con la scellerata riforma D’Amato-D’Alema del 2001 si è costruito una sorta di autonomismo acritico, sulla base dell’ipotesi che qualunque regione debba godere dello stesso livello di autonomia a prescindere dalle sue capacità. La riforma, così, in alcune regioni poco virtuose si è trasformata in uno spreco smisurato di risorse, mentre in altre, come la Lombardia, il risultato è stato che 50 miliardi di euro di residuo fiscale prodotti con efficienza dai lombardi ogni anno, finiscono nelle mani di altre regioni, dove vengono spesi (male).

Terrorizzato dagli effetti negativi di questo regionalismo mal costruito, l’attuale governo ha riportato in capo allo Stato praticamente tutte le competenze (si passa da 30 a 50), utilizzando lo slogan secondo il quale in questo modo si supererebbero i contrasti tra Stato e regioni sulle materie concorrenti. In realtà su alcune materie, come la sanità e la formazione professionale, la riforma assegna allo Stato il compito di intervenire sulle disposizioni generali e alle regioni quello di intervenire sulla disciplina di dettaglio. E’ chiaro, quindi, che difficilmente in questo modo si ridurranno i ricorsi di fronte alla Corte costituzionale, perché sarà proprio questa a dover definire cosa siano principi generali e cosa no. E’ probabile, dunque, che i conflitti aumenteranno».

La riforma serve a far ripartire il Pil? Insomma, aiuta o no le imprese?

«Assolutamente no, perché boccia il modello di governo che in questi ultimi vent’anni aveva dimostrato di poter sostenere lo sviluppo: il modello differenziato lombardo, veneto, ma anche emiliano e toscano. Il processo di ricentralizzazione delle competenze, infatti, avrà come effetto un’omologazione al ribasso: quando si cerca di mettere sullo stesso piano i bravi e i cattivi, normalmente ci si attesta a un livello medio, inferiore a quello dei migliori. Allo stesso modo, la riforma abbassa le capacità di performance amministrative di alcune regioni del Nord che avevano mostrato buoni modelli di governo. E questo è un vero peccato per chi aveva presentato la riforma attraverso la retorica del cambiamento.

La verità è che finiti gli argomenti, veramente scarsi, in difesa del Sì, l’unico argomento rimasto è: “Chi vuole cambiare vota Sì”. Ma a casa mia chi vuole cambiare segue i buoni modelli, che c’erano e ora vengono abbattuti. Quindi le imprese, soprattutto quelle del Nord, purtroppo andranno incontro a un passo indietro. Dispiace vedere come una delle principali associazioni imprenditoriali in Italia, Confindustria, per bocca del suo presidente abbia immediatamente e istintivamente sostenuto questa riforma. Posso assicurare, girando il territorio quotidianamente quando non sono a Bruxelles, che gli imprenditori anche questa volta sono poco in linea con i vertici della loro associazione».

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massimiliano salini





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