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Palazzi & potere
Italia? Servono più investimenti: parla Marco Fortis

Cosa dovrebbe fare l'Italia per rafforzare veramente la sua posizione in Europa? E come dobbiamo comportarci rispetto all'euro?

Con la bocciatura del referendum del 4 dicembre l’Italia ha perso una importante occasione per rafforzarsi in Europa e dare all’Europa stessa un messaggio di solidità e continuità nelle riforme. Gli italiani hanno votato no. E’ la democrazia. Però oggi molti si lamentano delle conseguenze di quel voto, del rischio “palude”, del rischio di una scarsa governabilità del Paese e di una conseguente perdita di credibilità a livello internazionale. Anche gli enti inutili stanno rialzando la testa… Durante il Governo Renzi l’Italia ha ottenuto spazi di flessibilità in Europa che sono stati utilizzati per rilanciare l’economia e l’occupazione, i consumi e gli investimenti. Tale flessibilità è stata ottenuta perché avevamo un esecutivo forte e stabile ed è stata usata con un certo successo. Affermare il contrario è soltanto pura polemica politica. In termini strettamente economici e sociali i fatti parlano da soli. Il reddito disponibile delle famiglie italiane in tre anni ha recuperato quasi 30 miliardi di euro, 1/3 dei quali ogni anno viene dai tanto criticati 80 euro. Grazie a questo recupero di reddito i consumi delle famiglie sono cresciuti dell’1,4% in più del PIL. Gli investimenti tecnici in macchinari e mezzi di trasporto delle imprese sono aumentati in un triennio del 15% e gli occupati di oltre 700mila unità. Nello stesso tempo il debito/PIL non è affatto aumentato bensì è stato stabilizzato grazie alla maggiore crescita economica, sia pure ancora non soddisfacente. Il Governo Gentiloni sta lavorando proseguendo nel solco del Governo precedente. L’Italia ha sempre ribadito, attraverso le sue forze politiche più responsabili, di credere nell’euro e nell’Europa, pur criticando alcune sue regole troppo rigide e la mancanza di sostegno sul problema dei migranti. L’Europa a sua volta continua a guardare con fiducia all’Italia anche se il no al referendum non ha certamente lasciato una bella impressione agli occhi dei nostri partner.

C'è chi auspica un ritorno alla lira, lei cosa ne pensa?

Non si capisce per quale motivo dovremmo tornare alla lira. Non certo per recuperare competitività visto che negli ultimi due anni il valore aggiunto della nostra manifattura è cresciuto perfino di più di quello della Germania e che il nostro export vola. Abbiamo un avanzo commerciale complessivo con l’estero record da tre anni consecutivi (51,6 miliardi il nuovo massimo storico nel 2016), cioè dei surplus molto più alti di quello che fu toccato sporadicamente nel 1996 quando la “liretta” veniva svalutata drasticamente. Al cambio attuale con il dollaro, più che ragionevole, l’euro è un “ricostituente” per il made in Italy non un freno.

Al di là delle classifiche e degli Outlook  che sono molto spesso interessati e non imparziali come invece si converrebbe, come sta veramente il sistema Italia, quali sono i punti di forza e i punti di debolezza; in cosa dovrebbe migliorare?

Sono dispiaciuto che non vi sia una seria analisi sul perché il PIL italiano cresca solo dell’1%. La verità è che i vincoli di bilancio legati al nostro alto debito pubblico ormai ci impediscono di fare spesa pubblica e di sostenere le costruzioni e le opere infrastrutturali. Al netto di queste voci di spesa il PIL italiano negli ultimi due anni è cresciuto allo stesso tasso della Germania e della Francia. O, meglio, anche questi due Paesi sono cresciuti poco, esattamente come noi, perché il problema della bassa crescita del settore privato in questo momento non è solo italiano ma europeo. Manca una spinta complessiva del Continente sugli investimenti pubblici che possa controbilanciare l’impoverimento dei redditi, la contenuta dinamica dei consumi e il calo demografico, nonché creare nuove condizioni di sviluppo. L’Italia resta forte nella manifattura (che si è rinnovata innovando molto in ambiti come la meccanica, i mezzi di trasporto, la farmaceutica) ma il nostro Paese è cresciuto bene anche nel turismo e nel commercio, due settori il cui valore aggiunto negli ultimi tre anni è aumentato 4 volte più del PIL. Dunque non sono certo le parti della nostra economia che si sono più aperte all’Europa quelle che ci frenano ma casomai le parti della nostra economia in cui siamo diventati poco europei, rimanendo anzi troppo chiusi nel recinto delle nostre inefficienze, come in molti segmenti della PA, nei servizi pubblici locali, nella giustizia, nella burocrazia, nelle banche. Siamo il Paese dei ricorsi al Tar e dell’incertezza del diritto per gli investitori stranieri.

Quali sono le 'vere' riforme che l'Italia dovrebbe affrontare nei prossimi anni?

Le ho già praticamente risposto in coda alla domanda precedente. Bisogna portare il vento del mercato, dell’efficienza e delle riforme anche in quei settori citati che non crescono come gli altri e che presentano forti ritardi. In più dobbiamo occuparci maggiormente del Mezzogiorno dove è più urgente che altrove la necessità di modernizzare la pubblica amministrazione. Il Sud e le Isole hanno sofferto molto più del Centro-Nord la lunga crisi. Le disuguaglianze maggiori che si sono ampliate durante la recessione sono quelle geografiche.E come dovrebbe cambiare l'Europa rispetto all'Italia?

Premetto che il nostro debito/PIL va tenuto sempre d’occhio e sotto controllo. Sotto questo profilo c’è chi teme la fine del QE di Draghi e i conseguenti maggiori costi per interessi ma è in corso anche un aumento dell’inflazione che può far crescere più velocemente il PIL nominale. I due effetti in prospettiva possono controbilanciarsi, almeno in parte. Non è affatto detto, cioè, che stiamo andando incontro ad uno scenario da tregenda. In questo quadro l’Europa dovrebbe soprattutto comprendere che l’Italia di oggi non è più quella che ha creato il mostro del nostro debito pubblico negli anni ’80 e ’90 ma un Paese con un bilancio dello Stato prima degli interessi largamente attivo, secondo nell’Eurozona e nel G7 solo a Germania e Lussemburgo nell’ultimo triennio. Inoltre, il nostro debito/PIL in mani straniere è più o meno agli stessi livelli di quello della Germania e molto inferiore a quello della Francia. Detto ciò non va certamente sottovalutato il tema dei nostri conti pubblici ma le attuali regole rigide del Fiscal Compact impongono ad un Paese come il nostro - già da anni molto più virtuoso di Spagna e Francia - livelli di avanzo primario troppo forzati che rischiano di imballare la crescita. E senza la crescita del PIL al denominatore il debito/PIL non scende. E’ matematico. A volte sono le stesse regole troppo rigide dell’Europa a innescare le reazioni dei mercati non i fondamentali economici dei Paesi. Servirebbe un Fiscal Compact più intelligente, magari “mitigato” con forme di premialità per le nazioni che mantengono valori di avanzo primario dello Stato significativi e costanti nel tempo. Dando a queste nazioni, cioè, più tempo per ridurre il debito/PIL rispetto ai Paesi che non riescono a chiudere il bilancio dello Stato in attivo prima degli interessi.  

In questi giorni si parla molto di elezioni anticipate; secondo lei, da un punto di vista economico/finanziario, sarebbero un bene per il paese oppure sarebbe meglio arrivare a scadenza naturale della legislatura? C'è il rischio che l'Italia venga messa nel mirino dalla speculazione internazionale?

Arrivare a scadenza naturale di una legislatura è, sulla carta, l’ideale. Ma occorre valutare obiettivamente anche le condizioni effettive in cui ci si può arrivare. Potrebbero essere condizioni di confusione e incertezza. Molto, ovviamente, dipende dalle forze politiche. Non è detto che i mercati apprezzino una situazione stabile ma confusa e che in un simile scenario la speculazione internazionale non ci prenda di mira lo stesso. In queste ore sembra prendere piede una ipotesi di ampio accordo sulla Legge elettorale. Vedremo. E’ curioso però notare che molti di coloro che oggi temono la speculazione internazionale, pronta ad abbattersi sull’Italia da un momento all’altro, non fossero così preoccupati prima del 4 dicembre e che si siano “battuti” veramente con poco entusiasmo per il sì al referendum o addirittura l’abbiano palesemente avversato.   

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