Politica
Referendum, l'arma di Schlein per regolare i conti all'interno del Pd: sfida aperta ai riformisti
Schlein in questo momento vuole mostrarsi solidale con Maurizio Landini, principale promotore dei quesiti referendari, per recuperare un rapporto che non è mai decollato

Referendum, l'arma di Schlein per regolare i conti nel Pd
Appare ormai evidente come sui referendum del prossimo 8 e 9 giugno 2025 più che la sostanza conterà probabilmente la forma. Perché mentre appare sempre più improbabile che si riesca ad arrivare o anche solo a sfiorare il quorum richiesto, appare chiaro che sui numeri del voto, si potrebbero giocare alcune partite interne nel campo delle opposizioni.
Ed è per questo che soprattutto Elly Schlein e Maurizio Landini, per ragioni contrapposte, stanno alzando un polverone sulla legittima presa di posizione da parte della maggioranza verso l’astensione. Polemiche che sono pretestuose, dal momento che lo stesso istituto del referendum prevede proprio la possibilità di non andare a votare per abbassare il quorum (delle 8 consultazioni effettuate dal 1997 ad oggi, solo quella del 2011, sulla gestione pubblica dell'acqua, raggiunse il quorum, con un'affluenza del 54,8% degli aventi diritto).
In questo caso però la polemica si è alzata di tono, perché il presidente del senato Ignazio La Russa, ha esplicitamente detto che avrebbe fatto propaganda per l’astensione. Un’uscita forse non proprio consona al ruolo istituzionale che ricopre, anche se il personaggio è fatto così ed è poco avvezzo a rispettare il rigido e formale protocollo della presidenza, ma che è stata forse anche un po' strumentalizzata da chi cerca in questo modo di aumentare visibilità mediatica su un tema che appare assai poco sentito dal corpo elettorale.
Da tempo si parla di riformare l’istituto dei referendum che, proprio come in questo caso, sono usati spesso più come arma politica che come strumento per legiferare. I referendum si sono dimostrati un buon strumento per decretare con il voto popolare il diniego o l’assenso su una singola questione di principio, come nel caso del divorzio, o del nucleare (anche se con tutte le nefaste conseguenze che questo ha portato per l’approvvigionamento energetico del nostro paese nei decenni a seguire) o ancora su quello dell’acqua pubblica, ma è molto meno efficace quando si invita a votare su quesiti che chiedono modifiche o abrogazioni di specifici provvedimenti legislativi.
Per quello servirebbero misure approvate un parlamento per evitare anche alcune distorsioni nei quesiti referendari, come quella che sarebbe contenuta nel quesito sul Jobs act. “E’ davvero bizzarro che il nostro partito segua la Cgil su un referendum che modifica una delle nostre migliori leggi sul lavoro degli ultimi decenni, in maniera oltretutto peggiorativa per i lavoratori, perché toglierebbe tutele anziché aggiungerne, come quella sul periodo di indennizzo che sarebbe ridotto a 24 mesi dai 36 mesi attuali. È una follia una delle tante di questa folle linea politica del nuovo corso del partito”, spiega un deputato vicinissimo a Renzi.
E già qui si capisce come questo non possa che provocare l’ennesimo cortocircuito all’interno del più grande partito di opposizione. L’ala riformista è con tutta evidenza contraria al referendum contro il jobs act (ma non si capisce, poi, anche come Paola De Micheli, per esempio, che non appartiene a quella corrente, ma che di quel governo era sottosegretario all’economia, per non parlare di Enrico Franceschini, ministro della cultura allora, possano adesso fare campagna per cambiare uno dei pilastri di quella esperienza di governo) e che non vedano troppo bene nemmeno il quesito sui licenziamenti e quello sulla cittadinanza.
“La segretaria da tempo sta tirando la corda per far uscire i riformisti dal loro guscio e dopo averli stanati, portarli di fronte al pubblico ludibrio. I referendum sono per lei strumentali proprio a questo, ma si tratta di una arma a doppio taglio e a rimanere col cerino acceso, come troppo spesso accaduto in questi mesi potrebbe essere ancora una volta lei”, raccontava un vecchio uomo del partito da tempo senza cariche elettive, ma che conosce fin troppo bene i meccanismi del Nazareno. La segretaria del Pd, insomma, sembra convinta che sia arrivato il tempo della resa dei conti interna, convinta da chi come Marco Furfaro, da tempo chiede un palese confronto tra le varie anime del partito.
Schlein in questo momento vuole mostrarsi solidale con Maurizio Landini, principale promotore dei quesiti referendari, per recuperare un rapporto che non è mai decollato (fonti interne del partito narrano che la segretaria abbia preso malissimo le aperture del segretario Cgil al governo dopo il tavolo a Palazzo Chigi sulla sicurezza sul lavoro). Perché la segretaria sa bene che portare il partito a sinistra vuol fare prima o poi i conti con Landini che, secondo chi lo conosce bene, avrebbe certamente preferito che a guidare il partito fosse Stefano Bonaccini. L’elezione a sorpresa della Schlein e la sua linea politica “troppo” a sinistra lo hanno certamente un po' spiazzato.
Ma per ora lo scarso appeal della segretaria e la sua mancanza di autorevolezza gli hanno permesso di avere buon gioco nel campo della sinistra. I referendum arrivano in un momento propizio per cercare di fare un po' di chiarezza nel campo assai confuso della sinistra italiana. I referendum sono un passaggio chiave per i due dal punto di vista personale, perché un buon successo (che vorrebbe dire un quorum superiore al 35%) li rafforzerebbe, una disfatta invece non potrebbe che indebolirli nei loro rispettivi ruoli. Tra i due litiganti alla fine a giovarsene potrebbe essere proprio Giuseppe Conte, che appare infatti assai più freddino nella campagna sui referendum.
Sotto sotto, qualcuno fa notare, che per lui un flop dei quesiti potrebbe aumentare le sue chance di assumere la guida delle opposizioni, di fronte ad una Schlein sempre meno credibile e forte, anche all’interno del suo stesso partito. Quello che ha rovinato un po’ i piani della segretaria del Pd, poi, è stato il no della Consulta al quesito sulla autonomia differenziata.
Perché il quesito che avrebbe certamente costretto anche Conte ad un maggior impegno, avrebbe avuto un impatto maggiore presso il corpo elettorale soprattutto al sud, rispetto a quelli su Jobs act e cittadinanza. Il leader cinque stelle comunque voterà sì a 4 referendum mentre ha concesso libertà di coscienza per quello sulla cittadinanza. Ma è chiaro che non si tratta di una sua battaglia prioritaria.
Mentre la Schlein ha bisogno con i quesiti di marcare la differenza con i riformisti interni le servono anche perché non vuole e non può, allo stesso tempo, lasciare troppo spazio a sinistra a Landini. “Schlein da mesi affronta un amletico dilemma- chiosava un decano degli osservatori politici- che è quello se seguire il suo istinto ed andare sempre più a sinistra oppure stare a sentire chi come il grande vecchio Dario Franceschini la invita a maggiore moderazione, soprattutto alla luce delle prossime fondamentali regionali”. Chissà che il risultato dei referendum non possano aiutarla a prendere finalmente una direzione chiara e soprattutto definitiva.