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Coronavirus
Coronavirus, il cardiochirurgo: "Così eparina e cortisone possono salvarci"

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA LETTERA DI UN CARDIOCHIRURGO

Sono Salvatore Spagnolo, un cardiochirurgo con una competenza specifica nel trattamento dell’embolia polmonare massiva.

Lo scorso marzo avevo ipotizzato che la causa di morte nella patologia da Covid 19 non fosse solo una polmonite interstiziale ma anche un’embolia polmonare diffusa e proposi la somministrazione dell’eparina.Per validare questa mia ipotesi, pubblicai un articolo sul Journal of Cardiology Research dal titolo: Covid-19 as a Cause of Pneumonia and Diffuse Peripheral Pulmonary Embolism. Early Anticoagulant Treatment to Prevent Thrombi Formation.Questa ipotesi non venne presa in considerazione e, solo a fine aprile, studi autoptici confermarono la presenza di trombi nei polmoni dei pazienti deceduti per Covid 19 e fu introdotta la terapia con eparina nei pazienti in terapia intensiva, ottenendo miglioramenti clinici.

Recentemente il prof. Nicola Magrini, Direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha dichiarato che l’eparina è un pilastro nel trattamento del Covid-19.Tuttavia, abitualmente, questo farmaco è utilizzato solo nei pazienti ricoverati con segni di polmonite.

Oggi sappiamo che, a differenza dei comuni virus antiinfluenzali, i coronavirus non danneggiano solo i polmoni ma entrano nei capillari polmonari e si riproducono nella loro parete interna chiamata endotelio.

È dimostrato da studi anatomopatologici e clinici che, quando il virus passa dalle narici alla trachea e raggiunge gli alveoli polmonari, entra direttamente nei capillari che circondano gli alveoli e naviga nella corrente sanguigna. Spinto dalla pressione di perfusione, raggiunge il cuore ed i vari organi del corpo umano.

Esso ha la proprietà di riprodursi nell’endotelio sia degli alveoli polmonari che dei capillari e determinare una progressiva infiammazione dei polmoni ed una trombosi del microcircolo. In alcuni pazienti, la distruzione dell’endotelio vascolare causa trombosi anche nel tessuto cardiaco, cerebrale o renale e determina infarti miocardici, ictus cerebrali o infarti renali.

La somministrazione a domicilio dell’eparina e del cortisone potrebbe contrastare, fin dall’inizio, l’insorgenza dei processi infiammatori e trombotici.

Una conferma che i farmaci antiaggreganti, somministrati all’inizio della malattia, possono ridurre la mortalità nei pazienti con Covid 19, arriva dall'Università Americana del Maryland. Mettendo a confronto le cartelle cliniche di centinaia di pazienti, un team di studiosi ha rilevato che l’uso abituale di aspirina ha ridotto in modo significativo il rischio di ricovero in terapia intensiva e di morte.

Utilizzando eparina, cortisone ed antivirali, medici della New York University hanno stimato, su 5 mila ricoveri tra marzo e agosto, un abbassamento della probabilità di morte dal 25.6% al 7.6% ed uno studio dell’Alan Turing Institute su 21 mila pazienti ospedalizzati in Gran Bretagna ha documentato un calo dei tassi di mortalità di circa 20 punti.

Tutti questi dati confermano che la medicina ha in mano farmaci in grado di contrastare l’azione del virus.

Purtroppo, la loro efficacia è limitata dall’essere utilizzati tardivamente quando il virus ha già causato danni di entità variabile a carico dei polmoni e dei vasi sanguigni. Mi auguro che l’Aifa introduca nelle linee guida l’aspirina 100 per il trattamento dei pazienti positivi al COVID ma asintomatici e l’eparina a basso peso molecolare (Enoxaparina, clexane ecc.) quando compaiono i sintomi dell’influenza.

Recentemente, le ASL di diverse Regioni stanno già inserendo l’eparina nella terapia a domicilio per i pazienti positivi al Covid e sintomatici ma pochi sanno di questa possibilità terapeutica e moltissimi sono i pazienti che vengono ospedalizzati.

Mi sembra di rivivere la medesima situazione che si ebbe in cardiologia qualche anno fa.Avevamo i presidi terapeutici per prevenire l'infarto miocardico ma la popolazione non ne era a conoscenza e si continuava a morire per infarto.Solo dopo una efficace campagna pubblicitaria, si è riusciti a far conoscere che il dolore al petto era un segno caratteristico della ischemia cardiaca e che il salvataggio del muscolo cardiaco era legato alla velocità con cui si faceva diagnosi. Questo portò ad una rapida diminuzione del numero di decessi per infarto.È auspicabile che l’organizzazione sanitaria nazionale informi la popolazione di questa possibilità terapeutica e faciliti la somministrazione di questi farmaci. Questo, probabilmente, impedirebbe di essere travolti da un numero sempre crescente di ricoveri per Covid.

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