Covid, nel Corno d’Africa è un’epidemia attenuata. Si allentano le restrizioni - Affaritaliani.it

Coronavirus

Covid, nel Corno d’Africa è un’epidemia attenuata. Si allentano le restrizioni

di Marilena Dolce

Dall'Etiopia a Gibuti la situazione a un anno dall’arrivo del coronavirus è relativamente sotto controllo

I dati parlano chiaro. In Africa e nei paesi del Corno d’Africa, il virus Covid-19 è arrivato più debolmente rispetto all’Occidente.  

Ad oggi, nel mondo, i casi, come riportato dall’Oms(Organizzazione Mondiale della Sanità), sono 110 milioni. Ventotto milioni negli Stati Uniti, che contano 330 milioni di abitanti. Trentasette milioni in Europa su 746 milioni di persone e meno di tre milioni nei 54 paesi dell’Africa, 1.200 milioni di abitanti.  

Nel Corno d’Africa, zona geografica che comprende Etiopia, Somalia, Eritrea, Sudan e Gibuti la situazione, trascorso un anno dall’arrivo del virus, è relativamente sotto controllo.

Lo testimoniano ancora le cifre: Etiopia, 149 mila casi su 100 milioni di abitanti, Somalia, 5.300 casi su 15 milioni di abitanti, Sudan 30.115 casi su 41 milioni di abitanti, Gibuti 6.000 casi su 1 milione di abitanti ed Eritrea, 2.627 casi su circa 3 milioni di abitanti.

Quali sono i motivi per cui il virus attecchisce meno in Africa e nell’Africa Orientale rispetto all’Occidente? Le ipotesi sono molte e a distanza di un anno dallo scoppio della pandemia tali, appunto, restano.

Quando lo scorso 11 marzo l’Oms ha dichiarato pandemia quella arrivata dalla Cina a gennaio, molti hanno previsto il peggio per l’Africa. Mentre in Europa ci si interrogava sul da farsi, per l’Africa ci si aspettava “l’esplosione della una bomba” Covid.

Un “allarme rosso” che non avrebbe lasciato scampo. Così invece non è stato.

Tra l’altro il Corno d’Africa, essendo un’area importante per il commercio tra Europa e Asia, è tappa fondamentale negli spostamenti di merci e persone. Dal canale di Suez, infatti, passa il 10 per cento del traffico merci mondiale. Si tratta di una grande zona, ampia circa 3.6 milioni chilometri quadrati, nella quale vivono 200 milioni di persone, anche se non è una zona omogenea. Al suo interno vi sono livelli di sviluppo sociale ed economico sensibilmente differenti. Così come diverse sono le religioni professate.

In generale è una delle regioni con il più basso tasso di sviluppo socioeconomico, tuttavia il FMI prevedeva che nel 2018 l’Etiopia sarebbe stata l’economia mondiale più in crescita. Certo l’arrivo del virus, anche se in forma meno violenta rispetto alle previsioni, non è stato un aiuto.

Due i timori legati alla nuova emergenza, la fragilità dei sistemi sanitari e il tracollo dell’economia, anche quella di sussistenza.

Nel primo caso l’Oms ha aiutato i singoli paesi a formare personale sanitario che imparasse a testare il virus e a prendersi cura delle persone colpite. Nel secondo il G20 ha accolto l’invito del G7 di sospendere il pagamento dei debiti contratti dai paesi più poveri perché potessero investire il massimo delle risorse nella lotta al Covid-19. Una pausa che riguarda 76 paesi di cui 40 nell’area Sub Sahariana.

Uno dei motivi per cui si pensa che, nonostante l’endemica fragilità, il Covid-19 abbia fatto finora meno danni nel Corno d’Africa è la giovinezza della sua popolazione, una condizione che come si è visto protegge dal coronavirus.

Se da un lato i paesi africani sono più vulnerabili, dall’altro sono anche più resistenti al Covid-19 proprio per l’età media degli abitanti. In Inghilterra l’età media è 40 anni, in Cina 37, in Nigeria, paese più grande dell’Africa, scenda a 17 e resta tale nella maggioranza dei Paesi, Corno d’Africa compreso.

Per il momento nel Corno d’Africa le armi più forti contro il coronavirus restano prevenzione e lockdown. Non si parla ancora di vaccini.

All’inizio della pandemia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Sudan e Gibuti hanno chiuso le frontiere per limitare gli spostamenti verso l’estero e gli arrivi. In un primo tempo l’invito è stato, come del resto anche in Italia, quello di “restare a casa”. Limitare gli spostamenti interni però è una condizione difficile da rispettare in paesi che si reggono su un’economia cosiddetta  “informale”. Motivo per cui, poco alla volta, il divieto di spostarsi e di uscire di casa è stato abbandonato quasi ovunque.

Tuttavia anche con una prevenzione minima, non si è verificata nel Corno d’Africa la temuta emergenza sanitaria.

Un’altra ipotesi di protezione è il clima caldo, che avrebbe reso più difficile al virus diffondersi in Africa.

Quanto alla differenza tra neri e bianchi, che inevitabilmente qualcuno suggerisce, il professor Vittorio Colizzi, ordinario di patologia generale presso l’Università di Roma dice durante una tavola rotonda online che “per l’infezione siamo tutti uguali. Il virus agisce in tutti allo stesso modo. Però per sviluppare la malattia si è diversi. Per esempio per gli anziani il rischio è più alto rispetto ai bambini. Questo perché i polmoni dei piccoli sono privi d’infiammazioni. Invece i polmoni delle persone anziane hanno molte cellule infiammate. Così all’arrivo del virus l’organismo più anziano reagisce in modo peggiore. Produce una tempesta di molecole che creano un danno rendendo impossibile il passaggio all’ossigeno”.

Un altro motivo per cui il virus in Africa e nel Corno sarebbe meno forte è la protezione rappresentato dal vaccino contro la tubercolosi. Ma anche questa è solo una teoria. Sulla pagina del Ministero della Salute tra le dieci fake news sul Covid-19  vi è anche quella sul rapporto tra TBC e Covid-19. La tubercolosi non avrebbe niente a che vedere con il coronavirus, perché causata da un batterio non da un virus, si legge.

Sulla minor diffusione del Covid-19 in Africa Colizzi ipotizza inoltre una sorta di “trained immunity”, cioè le persone svilupperebbero un’immunità allenata, condizione di maggior protezione dagli attacchi virali.

Come accade in Italia per i bambini che completano entro i dieci anni di età il ciclo dei vaccini. In questo modo anche se gli antigeni del Covid-19 sono differenti la loro immunità è molto stimolata. Possono entrare in contatto con il virus senza ammalarsi. Per gli africani potrebbe accadere qualcosa di simile non su base etnica ma per una trained immunity molto forte, stimolata dalle tante infezioni con cui convivono fin dalla nascita. Pensiamo alla malaria. E poi i bambini africani sono vaccinati con il BCG, vaccino antitubercolare anch’esso ottimo allenatore per il sistema immunitario.

Teorie a parte quello che è certo è che, nel Corno d’Africa, nonostante quasi ovunque il lockdown istituito ad inizio pandemia sia stato abbandonato prima dell’estate, non si sono verificati successivamente focolai pericolosi.

“La preoccupazione economica” dice Giuseppe Mistretta, ex Ambasciatore in Etiopia e ora direttore centrale per i Paesi dell’Africa Sub Sahariana “è stata maggiore rispetto al timore del contagio da virus”. Chiusura voli e meno scambi con l’Occidente sono per l’Africa pericoli  più grandi e più tangibili del Covid-19. Così come la mancanza di posti di lavoro che unita al lockdown  avrebbe potuto produrre una miscela esplosiva. In Etiopia, secondo Mistretta, il lockdown era stato deciso per proteggere la popolazione dal Covid, ma anche per evitare le manifestazioni di protesta dei disoccupati.

Oggi in Etiopia la situazione però è tornata abbastanza normale. Dal 4 dicembre le scuole sono frequentate in presenza. Anche quella italiana di Addis Abeba. Qui dicono che in questi mesi ci sono stati alunni positivi al tampone, quindi la singola classe e i relativi insegnanti sono stati messi in quarantena. Però non si è verificato nessun focolaio.

La compagnia aerea Ethiopian Airlines, che in realtà non aveva mai smesso di volare ma solo sospeso alcune destinazioni, è ora del tutto attiva. Ai viaggiatori che arrivano dall’estero è richiesto di esibire l’esito negativo del tampone. Comunque è stabilito un periodo di quarantena di sette giorni da trascorrere presso il proprio domicilio. Per gli stranieri è attivo un numero di assistenza medica.

Settimanalmente un bollettino emesso dal Ministero della Sanità monitora i casi accertati, i nuovi positivi, i guariti e i morti. Finora i numeri sono buoni.

Una situazione di relativa tranquillità confermata anche da don Angelo Regazzo, della missione italiana Bosco Children di Addis Abeba.

Don Angelo dice che sia per i ragazzi, sia per gli insegnati la vita nel compound procede normalmente. Ovviamente utilizzano, come dappertutto, mascherine e gel disinfettante. Conferma inoltre la riapertura di bar, ristoranti e negozi. “La capitale sta riprendendosi”, dice.

Diversa la condizione nel Tigray, una regione a nord del paese che conta circa 6 milioni di abitanti, estesa il doppio della Lombardia.

Dopo il tentato golpe dello scorso 4 novembre nel Tigray vige lo stato d’emergenza.

Gli scontri sul campo tra le milizie del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) e l’esercito federale del premier Abiy Ahmed hanno creato uno stato di guerra che ha spostato in secondo piano il problema del coronavirus. Per il momento l’urgenza è garantire la sicurezza, alimentare prima di tutto.

Inoltre circa 45 mila tigrini, famiglie con anziani e bambini, hanno lasciato le proprie case cercando rifugio nei campi profughi Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) in Sudan. Una situazione potenzialmente esplosiva per il contagio da Covid-19.

Dal piccolo stato di Gibuti arrivano invece notizie confortanti riguardo al Covid-19. Le frontiere aeree terrestri e marittime sono aperte. Necessario per partire e atterrare nel Paese un certificato di negatività al virus. In caso di sintomi o tampone positivo è prevista una quarantena di 14 giorni in una struttura  a proprie spese. Nessun lockdown.

Come spiega Marcello Mezzedimi, imprenditore italiano che vive a Gibuti, “la situazione ora è buona. Ci sono tracciamenti continui e pochi casi positivi, tra l’altro quasi tutti asintomatici. Per il momento nessuna variante. Il virus sembra essere debole e sotto controllo”.

Notizia di oggi anche l’Eritrea sta terminando il lockdown.

Asmara Eritrea Cartelli nei negozi
 

Il piccolo paese del Corno d’Africa, che finora conta solo sette morti per Covid-19, lo scorso anno ha chiuso l’aeroporto e con esso le frontiere via terra e mare. Poi ha stabilito un lockdown rigido con la serrata dei negozi e dei servizi non di prima necessità. Ancora una volta l’obiettivo era prevenire.

Sono stati creati molti hotspot per monitorare chi arrivava dall’estero e presidi sanitari per curare i positivi. In questo modo i numeri del contagio sono finora restati bassissimi. Il prezzo pagato dalle persone però è stato il brusco cambiamento nella vita sociale e nelle abitudini, anche in quelle religiose, compresi i festeggiamenti per i matrimoni. Tuttavia, come spiega Yonas che vive ad Asmara con la famiglia, gli eritrei condividono le scelte del Ministero della Salute.

“Siamo tutti convinti che sia stato il lockdown ad aver tenuto a bada il Covid-19”, dice, “qui tutti guardano i notiziari internazionali e sono molto più preoccupati per il virus rispetto al lockdown. Non ci sono negazionisti. Puoi trovare però qualcuno che ti dice che il Covid è una punizione divina e che l’Eritrea ne è immune perché prega abbastanza…”.

In Eritrea finora erano vietati gli spostamenti al di fuori del luogo di residenza. Inoltre non si poteva usare la macchina, se non per le urgenze. Così anche nella capitale Asmara ci si muoveva solo in bicicletta. Però non è mancata la merce dai banchi del mercato, multando chi la imboscava per venderla al mercato nero. Accanto al mercato tradizionale, spiega Yonas, ne esiste da sempre uno parallelo dove si paga con “coupon” statali. Una specie di paniere che garantisce prodotti di prima necessità a prezzi calmierati. E anche questo sistema ha sempre funzionato.  

Ora comunque anche quest’ultimo lockdown, il più “leggero”, dicono gli eritrei, è terminato. Domani riapriranno i negozi. Non ancora bar, ristoranti, agenzie di viaggio e internet point.

Infine la Somalia. Anche se in questo caso i dati sulla diffusione del virus e il timore per il Covid-19 non sono purtroppo l’unico problema. Anzi.

Una costante situazione di instabilità e terrorismo continua a generare sfollati interni ed esterni per i quali il Covid-19 è un problema che si somma ai molti altri. Anche se nel Paese c’è un forte impegno della diaspora per la ricostruzione e per il sostegno alle iniziative di pace e sicurezza. Una condizione quest’ultima relativamente più vicina. La firma, nel 2018, dell’Accordo di Pace tra Eritrea ed Etiopia infatti ha coinvolto anche la Somalia che ha stretto con entrambi i paesi un accordo di cooperazione che ha messo termine all’attrito precedente con l’Etiopia e aperto nuove strade. 

Insomma il Corno d’Africa ha molti problemi ma, per il momento,  sembra schivare quello del Covid-19.

Realtà sociale e ambientale sono la protezione contro il virus. Se a queste si aggiungono la struttura demografica, cioè una popolazione giovane, la scarsa densità media, città a parte, il clima caldo e la minor mobilità interna, lo scudo anti Covid-19 è completo e pare funzionare.