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Economia
Autostrade, l'anomalia tutta italiana. La telenovela del ritorno allo Stato

Forse per la lunga permanenza del loro business in Sud America, ma sembra proprio che i Benetton si siano affezionati alle telenovelas. Il soggetto è sempre lo stesso: Autostrade per l’Italia, un ircocervo che ha in realtà due caratteristiche opposte e contrarie. La prima è di essere una gallina dalle uova d’oro, tanto da venire valutata dalla famiglia trevigiana – ma si sa che l’occhio del padrone ingrassa l’asino – fino a 13 miliardi. La seconda è di essere un potenziale cavallo di Troia, per tre motivi fondamentali: l’esplosività dei risarcimenti per la catastrofe del Ponte Morandi, l’oggettivo ritardo nei lavori di ammodernamento dell’infrastruttura, le responsabilità legali nel caso in cui si dovessero verificare nuovi incidenti. Un autentico terreno minato in cui nessuno ha voglia di muovere il primo passo, rischiando di far saltare per aria l’intero campo. 

Presidente Giovanni Gorno Tempini e l'Amministratore delegato Fabrizio Palermo
 

Autostrade per l’Italia ha un nuovo vantaggio da cui partire: la procura di Genova, pur riconoscendo mancanze nel lavoro di ammodernamento dell’infrastruttura ligure, non ha però trovato rilievi da muovere alla società della holding Atlantia, per cui ha chiesto l’archiviazione. Dunque, non fare i lavori pattuiti per tempo non rappresenta una condotta disdicevole, anche se questo significa quadruplicare i tempi di percorrenza per gli utenti, generando code chilometriche. 

Ma la partita con la magistratura è lontanissima dall’essere completata. Intanto, soltanto in Liguria, ci sono altri due fascicoli aperti. Il primo riguarda il crollo della volta della galleria Bertè il 31 dicembre dello scorso anno; il secondo si basa sull’accusa – doppiamente grave se si pensa alla catastrofe del Morandi – delle mancate ispezioni trimestrali. Sullo sfondo, la partita ancora tutta aperta dei risarcimenti per il crollo del ponte sul Polcevera. 

In tutto questo via vai di emozioni, di valutazioni e di tentativi (per ora andati a vuoto) di transazione, è bene ricordare che Autostrada per l’Italia ha ricevuto nel 2018, come ultimo atto del governo Gentiloni, il rinnovo fino al 2042 delle concessioni. La società il mese scorso ha annunciato di aver messo a bilancio 3,4 miliardi come importo compensativo, di cui 700 milioni per la ricostruzione del viadotto crollato e per i risarcimenti alle famiglie. Il nuovo sistema tariffario voluto dal governo all’indomani del disastro ha ridotto di quattro punti percentuali la marginalità dell’azienda, con un incremento massimo delle tariffe dell’1,75% all’anno. E Aspi si è impegnata a investire 14,5 miliardi e altri 7 per le manutenzioni.

Per questo motivo, i Benetton, che pure hanno già mostrato di voler dismettere il business delle autostrade, non ci sentono quando si parla di due punti: una valutazione che non sia almeno in doppia cifra (in miliardi, ovviamente); la contrarietà assoluta all’aumento di capitale riservato a Cdp e ai fondi interessati, invece che ricevere direttamente la cifra pattuita. La differenza è sostanziale: nel primo caso i soldi finirebbero nella pancia della società, nel secondo verrebbero dati direttamente ad Atlantia. D’altronde, dopo anni di profitti interessanti, Aspi, complice il disastro del Ponte ha registrato il bilancio in perdita nel 2019 (-288 milioni), mentre gli altri concessionari hanno brindato con 600 milioni di profitti che portano dal 2008 a oggi gli utili a quota 15 miliardi, con 11 miliardi di dividendi incassati dai soci. Come funziona negli altri Paesi? Se in Italia l’86% della rete è appannaggio dei privati, nel resto d’Europa le cose sono un po’ diverse. In Francia, ad esempio, su oltre 11mila km di infrastruttura la sola Vinci ne gestisce quasi il 40%. In Germania, Svizzera e Regno Unito, invece, sono interamente pubbliche. 

In tutto questo la partita è tutt’altro che chiusa, e continua a trascinarsi stancamente mentre passano le settimane e i mesi. Il governo – nella componente Cinque Stelle – si è reso ormai definitivamente conto che la revoca della concessione senza alcun tipo di compensazione sarebbe immediatamente bloccata dall’Europa. Che ha già ricevuto a settembre una lettera dal cda che si lamentava dell’obbligo – velato ma non troppo – di cedere le proprie quote alla cordata capitanata da Cdp invece che sondare il mercato alla ricerca di nuovi potenziali acquirenti.

Astm — la holding del gruppo Gavio, il secondo per dimensioni dopo i Benetton — ha archiviato la prima metà dell’esercizio in utile per 33 milioni (contro i 75 del 2019) malgrado la discesa dei ricavi da 989 a 860 milioni e ha già annunciato di essere pronta a offrire cedole agli azionisti. Un risultato migliore di quello di Autotrade, che ha perso altri 476 milioni di euro (2,6 milioni al giorno) per il crollo del 37% del traffico ma soprattutto per i 700 milioni tra oneri straordinari e fondo rischi stanziati per presentarsi con le carte in regola allo showdown con governo e Cassa Depositi e Prestiti. 

Proprio la Cassa ieri ha annunciato una nuova offerta: il 40% del capitale di Aspi (detenuto all’88% da Atlantia) andrebbe alla Cdp – che potrebbe scegliere presidente e amministratore delegato - e il 30% ciascuno a Blackstone e Macquarie, che potrebbero indicare il direttore finanziario. Inoltre, ci sarebbe l’aumento della valutazione in un range tra gli 8,5 e i 9,5 miliardi di euro, in crescita rispetto al precedente “pacchetto” che il cda aveva definito non idoneo.

La holding della famiglia Benetton non ha fretta: è vero che il pressing delle istituzioni si è fatto sempre più forte, ma lo è altrettanto che il cosiddetto “dual track”, cioè la vendita all’asta o scissione, rimane un’ipotesi sul tavolo. A breve dovrebbe essere convocato il consiglio di amministrazione dell’azienda per discutere del bilancio. Una convocazione che potrebbe però slittare in caso di accordo. O di una nuova puntata di questa telenovela fin qui appassionante, ma che rischia di diventare stucchevole se dovesse protrarsi ancora a lungo. 

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